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Alla première in abito monastico, "Silence" di Martin Scorsese

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Stare a contatto con un capolavoro … Quante volte durante la vita può accadere un tale miracolo? Qualcuno dirà: una sola volta! un’unica volta! Qualcun altro vede capolavori dappertutto attorno a sé.

Ma la verità è che vedere un capolavoro è un privilegio, è una grazia. Il capolavoro appare raramente. Una volta ogni dieci anni? Una volta in una generazione? Una volta in un secolo? Quando, però, si presenta, quando appare, allora comincia ad attirare, invita e chiama.

O forse questo testo – infatti, lo scrivo con forte emozioni! – bisogna cominciarlo in maniera diversa?

Chi non si ricorda la commozione e il terremoto interiore che ci accompagnavano quando guardavamo "La Passione di Cristo" di Mel Gibson? Chi non si ricorda come, finita la proiezione del film, uno non riusciva a tranquillizzarsi e a ritrovare sé stesso per ore e per giorni. Vi ricordate quella strana, estatica, interiore commozione, quella sensazione dello stare a contatto con la bellezza, anche se essa era una terrificante bellezza della passione di Cristo e della sua geniale rappresentazione cinematografica?

E' difficilmente credibile, ma qualche cosa di molto simile è avvenuto a me durante l’anteprima del film Silence di Martin Scorsese. La commovente bellezza di quell’immagine mi scuote interiormente anche oggi, molti giorni dopo la proiezione. Non per caso ricordo "La Passione di Cristo” di Gibson, perché un’esperienza cristiana così profonda non mi è capitata al cinema proprio dal tempo di quel film.

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Silence è un capolavoro e, in più, un capolavoro di per sé cristiano. È un film - trattato apologetico-ascetico, un film – meditazione, un film – omelia, un film – confessione, un film – preghiera, un film – supplica, un film – grido, un film – oppressione e un film – silenzio accarezzato.

Silence non rassomiglia per niente a quelle operette pseudocristiane nelle quali troviamo risposte facili e conversioni facili, quegli pseudoracconti bugiardi su Dio che appare appena richiesto soltanto per causare un happy end, quei raccontucci di stampo morale su un cristianesimo facile, gioioso, privo di domande difficili.

Silence è una radice del cristianesimo, una meditazione su un Dio che tace, su un mondo che vince l’uomo, su domande senza risposte, tradimenti impossibili da evitare, ricerche che finiscono in tenebre, peccati impossibili da essere perdonati (da parte di se stessi), su peccati che non si possono non commettere, su uomini capaci della più grande ferocia fisica e spirituale, di perdita che è vittoria, di combattimento che bisogna perdere per vincere, di insufficienza delle formule umane, di sofferenza che il traditore deve sopportare, di forze delle tenebre e di astuzia del signore di questo mondo, di valle di lacrime nella quale affoghiamo, del Cristo Misericordioso, infine, di colui che rompe il silenzio quando raggiungiamo il fondo della sofferenza, perché pende maltrattato dalla croce dei nostri curricula, di ciò che rassomigliamo a Lui a causa del volto, di quanto in Lui tutto sperimenterà il sollievo. Un capolavoro.

In quanto esperto cinematografico e teologo, sperimento un disgusto e ribrezzo verso il kitsch religioso sullo schermo. Esso appare spesso attraverso la voce di Dio da dietro un fotogramma, voce profonda e delicata che si presenta quando il protagonista del film è in difficoltà. Questa voce fornisce un salutare suggerimento e tutto comincia ad andare felicemente. Tale fenomeno è sempre accompagnato da un dubbio. Pensiamo su chi parli: Dio o l’ego interiore del protagonista, o forse il narratore cinematografico oppure, ancora peggio, l’autore del film si immischia, come se fosse Dio, nelle sorti del mondo del film.

Il disgusto dello spettatore è comprensibile, perché con un tale Dio, che parla da dietro un fotogramma, non si discute, un tale dio è troppo facile, indiscutibile, ultimo, messo nelle teste degli spettatori quasi forzatamente. Ciò nonostante, a Scorsese è permesso. Ho sentito nel Silence Dio che parla da dietro un fotogramma, ma è stato un Dio che taceva da troppo tempo. Questa voce era una sorgente di misericordia, un sollievo.

Il Cristo di Scorsese parla dall’immagine 踏み絵 (fumi-e), ovverosia dal quadro che serve per essere calpestato e che i giapponesi, persecutori dei cristiani, ordinavano di profanare in segno di apostasia. Non a caso parla nel film dall’immagine dell’ "Ecce homo”, dall’immagine del flagellato, del coronato di spine, dell’incarcerato, del solo, dello schiacciato. E pronuncia parole così radicali e così profondamente conforme a Cristo che potrebbero trovarsi nel Vangelo. Anche se esse (come sempre nel Vangelo) sono le più difficile al mondo, parole contro ogni sentimento religioso, parole taglienti come una spada che feriscono per tutta la vita. Parole di un amore più grande della morte: "Calpesta! Puoi calpestare! Io esisto, affinché voi mi calpestiate – non era, però, quel volto pieno di maestà e di gloria, che conosceva a Roma, ma la testa ferita del Salvatore che dice: Calpestami, calpesta del tutto. Per questo sono venuto…”.

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Queste parole provengono dal romanzo di Shūsaku Endō, che il film di Scorsese presenta. Questa scena rimane nella memoria dello spettatore come fosse una spina che penetra il cuore. Il velo del tempio di scinde, tutto si compie in quel momento: la vittori di Satana e la discesa nell’Ade. Ma soprattutto si svela l’amore di Dio mite che muore insieme a noi, che "esiste, affinché sia" il più piccolo, calpestato. Si svela l’amore che perdona e capisce, l’amore che non teme la croce per salvare l’essere umano. Avete mai incontrato al cinema un pensiero così profondamente cristiano?

Ramón Cué Romano esprime nel bel libro “Mio Cristo rotto” un pensiero simile: “Guarda me, rotto e frantumato, parla la lingua dell’amore, e allora comincerai a capire. La mia gioia è che gli uomini hanno bisogno di me. Il mio destino è sanare il dolore. Sono io che porto tutte le sofferenze di tutti gli uomini, di tutte le razze, in tutti i momenti della storia. Scorte tutte e cumulate tutti in un solo momento dell’eternità, pesano su di me contemporaneamente. Dalla prima sofferenza di Adamo e dalle lacrime di Eva... fino all’ultimo grido dell’ultimo abitante che piangerà sulla terra”.

Il protagonista principale del film, un giovane gesuita che cerca, nel Giappone ostile ai cristiani, il suo maestro – apostata, è bello. Bello fisicamente e bello spiritualmente. Anche durante la più grande sofferenza. Come bello è il Paese nel quale deve cercare Dio e vivere la sua Via crucis. E di nuovo: in qualsiasi altro film, fatta da qualsiasi altro autore, una scena (basata su effetti speciali, in cui il protagonista scorge nel suo volto il volto di Cristo) saprebbe di kitsch. Ma a Scorsese di nuovo tutto è permesso. Scorsese è capace.

In questa scena evoca la più profonda missione del cristiano: l’imitatio Christi – il rassomigliare al Crocifisso. Il rendersi simile al più bello dei figli dell’uomo: lo scoprire in sé il Volto di Dio. Andrew Garfield, che recita il protagonista, conosciuto a causa dell’ottima recita nel fenomenale film "La battaglia di Hacksaw Ridge”, dice (preparandosi a girare Silence): Il ritiro spirituale dei gesuiti ha lasciato in me una nostalgia di predicare la dottrina di Cristo che davvero ho cominciato ad adorare. Anche Martin Scorsese parla pubblicamente delle sue radici cristiane nel vedere il mondo: Penso che il cattolicesimo sia parte della mia vita personale e sono persuaso che sempre sarà così. Sono diventato regista per esprimere tutto me stesso e le mie relazioni con la religione che sono decisive. Si può certamente provare meraviglia sentendo queste parole, ricordanodosi i film "Quei bravi ragazzi", "Casinò" o "The Wolf of Wall Street". Ma se pensiamo a "L’ultima tentazione di Cristo", si può capire che le ricerche religiose del regista hanno la profondità delle più importanti domande sull’essenza del male, sulla questione concernente la redenzione delle colpe e sul senso della croce, sulla sofferenza redentrice che sorpassa ogni risposta umana, sorpassa non solamente la psicologia e la filosofia, bensì anche la possibilità della teologia.

Il romanzo di Endō e il film di Scorsese soltanto apparentemente parlano dei gesuiti del Giappone del XVII secolo. Il dramma del martirio, infatti, si compie qui ed ora, non lontano da noi, e i nostri fratelli cristiani, che vivono a due ore di volo dall’Europa, dànno la vita per Cristo. L’analogia con i nostri tempi è però più profonda. Nel romanzo, il sacerdote torturato e perseguitato rammenta i giorni – per niente remoti! – in cui i gesuiti giapponesi deliberavano di cambiare i vestiti religiosi di cotone in altri, più comodi, fatti di seta. Il conforto nel professare il cristianesimo è ingannevole, fa addormentare, rende pigri, cessa di essere creativo, non provoca e non dà la vita. Però, non lasciamoci ingannare: il tempo della persecuzione arriva in un batter d’occhio. Oggi sperimentiamo momenti di trionfo e di espansione, domani possiamo affrontare il dramma di più tragiche scelte.

Se la misura della grandezza del film è la profondità delle domande che rimangono dopo la proiezione, allora il "Silenzio" di Scorsese è emanazione di ciò che nel cinema è il più grande: affascina con la grandezza e freschezza del panorama, fa cadere con la drammaticità, la tragicità – la più vera, non fittizia – fa alzare a vette inaudite, e con la profondità della meditazione cristiana oltrepassa i trattati dei più noti teologi, e nel frattempo non nasconde niente, non offusca timidamente i grandi temi con simbolismo o metafora.

Stare a contatto con un capolavoro… Quante volte durante la vita può accadere un tale miracolo? Se pensavamo che l’epoca dei grandi temi cristiani fosse passata, Silence di Scorsese ci dà prove che la situazione è del tutto diversa: essa arriva proprio ora, e non di rado ancora – lo spero – vedremo al cinema il Cristo misericordioso.