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Da Ebola a Zika, il tema è sempre lo stesso: le persone si fidano solo dei missionari

Padre Konteh | Padre Konteh - il terzo da sinistra - con altri missionari impegnati nel fronteggiare l'emergenza Ebola | FB Padre Konteh | Padre Konteh - il terzo da sinistra - con altri missionari impegnati nel fronteggiare l'emergenza Ebola | FB

Come rispondere alla recente epidemia di Zika? Se lo sono chiesi 30 tra professionisti e missionari della Caritas che si sono incontrati a Roma nella seconda settimana di dicembre. Hanno fatto i conti su come hanno risposto all’epidemia di Ebola (che ha toccato 3 continenti e ha causato 11 mila morti) e hanno sviluppato un modello per rispondere anche ad altre emergenze, come quella di Zika. Padre Peter Konteh ha un lungo lavoro sul campo. È direttore esecutivo di Caritas Freetown, in Liberia. Racconta ad ACI Stampa il lavoro che è stato fatto. E il perché il lavoro sul campo della Chiesa è ancora l’unica possibilità per salvare molte vite.

Cosa avete imparato dall’emergenza Ebola?

Quando è scoppiata l’epidemia, le persone non si fidavano del governo, né del lavoro delle Organizzazioni Non Governative. Si fidava di noi. Siamo missionari, sacerdoti, membri della Chiesa, passiamo ogni giorno con le persone. Abbiamo un capitale di fiducia che è il valore più importante, e che ci permette di rispondere alla crisi in maniera più efficace. Prima delle strutture, viene la fiducia.

Quali sono state le più grandi sfide nell’affrontare l’epidemia di Ebola?

L’Ebola si è diffuso molto rapidamente, ma noi abbiamo avuto varie difficoltà iniziali, anche perché gli stessi leader religiosi davano a volte messaggi sbagliati. Si è diffusa l’idea, per esempio, che le persone contraessero l’Ebola come una punizione dei loro peccati. Ci abbiamo messo tempo a spiegare che questo messaggio era sbagliato, a valorizzare la profilassi. E nel frattempo la comunità internazionale rispondeva anch’essa lentamente. Io sono stato personalmente negli Stati Uniti, nel Regno Unito, a spiegare l’emergenza. Solo dopo ci si è accorti della serietà del problema, di come questo potesse diffondersi a livello internazionale.

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In che modo avete risposto alla crisi di Ebola?

Soprattutto con l’educazione. Abbiamo spiegato alle persone cosa fare e cosa non fare, dando le indicazioni di base per poter fermare la trasmissione del virus, dato che la trasmissione avviene con il contagio. Abbiamo sviluppato una strategia per raggiungere il maggior numero di persone nel minor tempo possibile.

È una strategia che vi aiuta anche con altre epidemia, come quella di Zika?

Sì, perché si basa sull’educazione, la consapevolezza e la dignità dell’essere umano. Noi non curiamo semplicemente le persone, quando possiamo, ma cerchiamo di renderle consapevoli del problema dell’epidemia. La prima sfida è quella dell’educazione. Ovviamente, quando esplode la crisi si deve rispondere in maniera efficace anche dal punto di vista medico, e in maniera urgente.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il welfare legato alla Chiesa rappresenta quasi un 70 per cento delle strutture. Eppure, ci sono stati problemi anche negli ospedali cattolici. Come mai?

La verità è che non eravamo pronti ad affrontare questo tipo di situazione sanitaria. Proprio perché gli ospedali cattolici davano tutta l’assistenza possibile ai poveri, questi ospedali sono diventati molto vulnerabili al contagio. Abbiamo perso molti dottori, molti infermieri.

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L’emergenza Ebola è finita?

È arrivata ad una fine, ma non credo sia finita. Dobbiamo essere molto attenti, continuare le nostre campagne di educazione, prevenire un nuovo contagio.