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Lacrime di sale: Lampedusa e i migranti raccontati dal medico Pietro Bartolo

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Ormai i profughi che ogni giorno solcano il mar Mediterraneo per arrivare in Europa è difficile contarli, anche se chi abita a Lampedusa non perde la speranza di poter salvare tutti, come ci ha raccontato Pietro Bartolo, protagonista del film documentario ‘Fuocoammare’, vincitore dell’Orso d’oro a Berlino, e responsabile del presidio sanitario e del poliambulatorio di Lampedusa dell'ASP di Palermo.

E’ stato in prima fila nei soccorsi ai sopravvissuti della strage del 3 ottobre 2013 quando delle fiamme su un peschereccio all’Isola dei Conigli pieno di oltre 500 migranti, causarono 366 vittime, nonostante qualche settimana prima fossa stato colpito da un’ischemia cerebrale: “Nel 1991, avendo vinto un concorso pubblico, sono entrato a far parte del Sistema Sanitario Nazionale rivestendo da quella data la carica di Dirigente Medico presso il Presidio di Lampedusa.

Proprio nel 1991 Lampedusa è divenuta porta d’ingresso all’Europa per i numerosi migranti africani che da allora hanno iniziato a raggiungere le nostre coste. Fin da subito ho deciso di offrire volontariamente il mio contributo per accogliere e curare tutti coloro che si sono avventurati per mare alla ricerca di una vita migliore, e, ancora oggi, sono impegnato attivamente nell’accoglienza. Ho avuto la fortuna di salvare molte vite, far nascere bambini ma, allo stesso tempo, ho dovuto confrontarmi con circostanze meno liete quali quelle che mi hanno visto eseguire numerose ispezioni cadaveriche sui corpi di quanti non sono sopravvissuti alla traversata. Quindi l’inizio della mia carriera coincide con i primi sbarchi, sui quali c’è molta ignoranza o, se vogliamo, disinformazione. Infatti non molti sanno che il primo sbarco avvenne addirittura nel 1991, quando trovammo tre tunisini che si erano nascosti nell’hotel Medusa. Poi gli sbarchi continuarono, ma il vero balzo in avanti nel flusso di migranti si ebbe nel 2011, con la ‘Primavera Araba’ in Tunisia e poi con la caduta del regime di Gheddafi in Libia”.

Poi lascandogli la libertà di parola ci racconta, da protagonista, la tragedia avvenuta dieci giorni dopo di quella del 3 ottobre 2013: “L’11 ottobre 2013, 10 giorni dopo, è successa una disgrazia molto peggiore, in cui sono morte 1000 persone. Di questi me ne portarono 21 cadaveri e 9 vivi con un elicottero maltese; però l’incidente avvenne a 60 miglia nessuno si interessò… Nessuno li vuole perché dicono che portano malattie, come la scabbia, che si cura in cinque minuti. Io preferisco la scabbia, che non l’influenza, perché con quest’ultima si muore. La scabbia è una manifestazione come i pidocchi; si fa un trattamento di tre minuti e si guarisce. I migranti non portano le malattie, perché sono persone sane e noi gliele passiamo.

Quando arrivano in Libia, se li spartiscono le tribù, perché debbono fare soldi; e se non hanno i soldi per il riscatto gli tolgono gli organi, oppure li chiudono nei campi di concentramento e li affittano ad € 5000 per sei mesi facendoli lavorare nei campi. Una volta sfruttati li liberano verso il mare, dove sono presi da altri, che li schiavizzano. Quindi sono persone forti e sane. Per 25 anni ho lavorato nel molo, in cui sbarcavano i migranti, e nessuno se ne è accorto; se ne doveva accorgere un regista!.. Il problema non è l’accoglienza, che facciamo bene. Il problema è la seconda accoglienza”.

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Il 27 settembre è uscito il suo libro ‘Lacrime di sale’. Perché lo ha scritto?

“Non lo volevo scrivere. Durante gli anni ho raccolto queste storie per non dimenticare. Non voluto mai pubblicare questa memoria, anche se ci penso da anni. Ora ho sentito l’esigenza perché è giusto che la gente sappia quello che succede. C’è più di quanto si racconta nel film, obbligando il regista a farlo. In 25 anni sono stato intervistato dalle televisioni del mondo, che arrivavano a Lampedusa ad ogni naufragio. Ho cercato di raccontare, ma forse non sono stato bravo. Invece con questo documentario se ne parla tanto, anche se non è cambiato nulla. Ed allora, chissà se anche con il libro si riuscirà a mettere più al centro quello che succede nell’isola, contribuendo ancora di più a scuotere le coscienze della gente, svegliando l’Europa dal letargo. Ogni Stato fa come vuole: chi mette muri e chi da soldi alla Turchia, che è una vergogna. In questo modo l’Europa se ne lava le mani, dicendo alla Turchia: tienitili tu e fanne quello che vuoi. Però i muri materiali si abbattono; i muri mentali sono difficili da abbattere. Noi ci dobbiamo provare tutti insieme. Io sono un medico e voglio continuare a fare il medico e non raccogliere più le sofferenze dei migranti, perché fanno male all’animo sentire le storie strazianti di chi è costretto a lasciare la propria terra. E le donne pagano il prezzo più alto, subendo sevizie atroci. Nonostante tutto, sono le più forti”.

In tutta questa sofferenza c’è qualche storia di speranza?

“Certo: abbiamo salvato per miracolo una ragazza di 20 anni. Nei primissimi momenti dopo il naufragio l’avevano messa tra i morti sulla barca dove l’avevano raccolta dall’acqua. Per fortuna faccio sempre una verifica tra tutti i ‘corpi’ e mi sono accorto che questa ragazza data per deceduta aveva un polso flebilissimo, ma tiepido, e allora siamo riusciti con l’aiuto dei ragazzi del peschereccio a salvarla. Direi che l’abbiamo proprio acciuffata per i capelli”.

A Lampedusa operate tra pronto soccorso e poliambulatorio, con il sostegno di un elicottero che porta verso la Sicilia i casi più critici. Ce la fate a reggere l’impatto di una situazione come quella che si è creata in questi giorni?

Diciamo che il poliambulatorio ce la fa, perché abbiamo un’organizzazione dinamica e i colleghi sono tutti dotati di dedizione e coraggio. Un'altra questione è come riuscire a resistere davanti alla situazione: abbiamo fatto 231 ispezioni cadaveriche in pochi giorni e quelle non te le dimentichi, soprattutto per i ragazzini, per le donne gravide e per i bambini piccoli. Questi non li dimenticheremo mai. E ce li porteremo dietro, come ogni medico sa, per tutti i giorni futuri della nostra professione. E della nostra vita. 

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Allora il premio Nobel per la Pace a Lampedusa?

“Gli abitanti di Lampedusa si meritano il premio Nobel per la Pace, come gli abitanti dell’isola di Lesbo. Più che ad assegnare un premio nobel, penserei a risolvere il problema di non farli più morire. E’ giusto parlare di Dublino e di Schengen, però stanno morendo le persone. Queste morti potrebbero essere evitate, andando a prenderle in Libia; e se non si può andare in Libia, andiamo in Tunisia, facendo un accordo, così trafficanti risparmiano i soldi dei gommoni; almeno non muoiono più per quelle fatidiche venti miglia”.