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Il Myanmar dopo il viaggio del Papa, quali sono i problemi?

Cardinale Bo | Il Cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon | Daniel Ibanez / ACI Group Cardinale Bo | Il Cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon | Daniel Ibanez / ACI Group

Non è terminata la crisi umanitaria in Myanmar dopo il viaggio di Papa Francesco nel Paese. Di certo, però, la Chiesa locale ha potuto usare il credito maturato con la visita del Papa per continuare un dialogo con il governo. E di questo il Cardinale Charles Bo, arcivescovo di Yangon, è più che soddisfatto.

“Dopo il viaggio del Papa – racconta ad ACI Stampa – abbiamo avuto la possibilità di un dialogo con i militari sulla questione dei profughi in Kachine”. Si tratta di uno Stato a Nord della nazione, popolato a maggioranza dei cristiani.

Il dialogo è andato avanti anche perché Papa Francesco ha accettato di incontrare il generale Hlaing, aprendo così un canale di dialogo con i militari che continuano a detenere il reale potere nel Paese, nonostante la parziale transizione democratica.

Il Cardinale Bo è stato a Roma per la riunione del Santa Marta Group contro la corruzione. In quell’occasione, ha descritto il Myanmar come “una nazione che ha sollevato il cammino della speranza nel passato recente”, e l’alba della democrazia ha “provocato sogni di sicurezza umana”. Eppure, lo scorso anno, i discorsi di odio e la manipolazione religiosa hanno portato la nazione nell’incubo.

Questo ha incluso il traffico di esseri umani, perché “una delle più grandi migrazioni forzate degli ultimi anni ha avuto luogo in Myanmar. Possiamo solo piangere il nostro popolo in esodo e l’infinita via Crucis di milioni tra migranti, rifugiati e sfollati”.

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“Sono in milioni – aggiunge il Cardinale – i giovani che lasciano la nazione, e molti di loro sono rifugiati nelle tigri economiche asiatiche o diventano i moderni schiavi. Una ferita viscerale è stata inflitta al nostro popolo”.

La crisi umanitaria dei Rohingya è stato uno dei temi della visita di Papa Francesco, cui è stato chiesto di non pronunciare la parola. E la risposta è presto detta: “C’è uno schema ben studiato di rendere Aun San Suu Kyi debole, facendole rivoltare contro i suoi amici internazionali, e con la questione dei Rohingya lo schema è riuscito al 100 per cento. Non si tratta solo del destino dei Rohingya a rischio, ma anche di quello di una nazione che viene isolata dai suoi partner internazionali”.