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Addio a Mary Ann Walsh, la suora che fronteggiò i leaks pre-conclave

Sister Mary Ann Walsh | Convento delle Sisters of Mercy, Albany, New York | www.sistersofmercy.org Sister Mary Ann Walsh | Convento delle Sisters of Mercy, Albany, New York | www.sistersofmercy.org

Quando nel 2013 dovette sospendere gli incontri dei cardinali USA con i giornalisti, si scagliò contro i media italiani, protagonisti della fuga di informazione dagli incontri pre-conclave. Fu così, con un tagliente post sul suo blog, che Suor Mary Ann Walsh, della Suore della Misericordia, allora direttore delle Comunicazioni della Conferenza Episcopale USA divenne conosciuta in Italia nel ristretto mondo dei vaticanisti. È morta ieri, in un hospice di Albany, dove era nata, a soli 67 anni, a causa di un cancro che si era manifestato di nuovo nell'estate scorsa.

Dallo scorso anno, non era più direttore delle Comunicazioni della Conferenza Episcopale USA, e si era dedicata a quello che le piaceva di più: scrivere. Stava preparando dei libri, scriveva regolarmente (e su varissimi temi) sulla rivista gesuita “America,” studiava. “Ho finalmente il diritto ad avere una opinione,” aveva detto in una recente intervista, dopo essersi liberata del ruolo istituzionale che pure aveva svolto con piglio e precisione.

Si deve tornare ai giorni delle Congregazioni Generali per comprendere in che modo Sister Walsh, come tutti la conoscevano, entrò di prepotenza sulla scena mediatica. L’emozione per la rinuncia di Benedetto XVI aveva fatto posto alla fredda esigenza, per i cardinali, di discutere di qualcuno che sarebbe dovuto diventare Papa. Nel 2005, quando il decano del Collegio dei Cardinali era il Cardinal Ratzinger, i contatti con la stampa erano stati proibiti. Non c’era stata nessuna disposizione del genere da parte del decano del Collegio, il Cardinal Angelo Sodano.

Ovviamente, sulle Congregazioni Generali c’è anche una consegna di riservatezza. Non si possono dare i dettagli delle discussioni, perché altrimenti i cardinali non potrebbero discutere liberamente. Anche i porporati che parlano con i giornalisti lo devono fare con prudenza. Ma c’è anche l’esigenza, tutta mediatica, di dare voce e volto a quello che sta succedendo.

Lo sapeva Sister Walsh, che si rendeva conto anche della necessità di portare i cardinali USA a parlare nella loro lingua davanti al loro pubblico. Senza violare segreti, due cardinali al giorno tenevano un briefing al North American College, si lasciavano intervistare dalle tv USA che così avevano spazio sui notiziari, conversavano con i giornalisti.

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Ma poi c’era la parte meno istituzionale. Perché c’erano cardinali che svelavano segreti e discussioni alla stampa, e c’era la stampa che diffondeva queste notizie con dovizia di particolari, facendo nomi e cognomi di chi aveva detto cosa. La tensione alle Congregazioni generali crebbe. Si decise di chiedere a tutti i cardinali di non parlare più con la stampa.

Sister Walsh sapeva che questo non sarebbe bastato. Così pubblico un post, molto duro e preciso, che spiegava nei dettagli la situazione. “Un giorno eccitante è cominciato quando ‘La Stampa’, un quotidiano italiano, a pubblicato una storia che ha violato la confidenzialità delle Congregazioni Generali,” scriveva nel post del 6 marzo .

“Inevitabile” era stata dunque la decisione di non preparare più i media briefing, una decisione presa dall’alto di cui gli americani avevano saputo “un ora prima che il nostro briefing quotidiano stesse per iniziare,” e la comunicazione veloce della cancellazione creò molta agitazione.

Scriveva Sister Walsh: “Le teorie si sono moltiplicate. Si è trattato di uno scontro di culture tra media italiano e USA? Possibile. Non amavano la folla di persone che era rimasta in giro dopo il nostro briefing di ieri? Non vero. Un cardinale che si imbatte in un reporter non porta alla cancellazione del briefing.”

Spiegava Sister Walsh che il dipartimento comunicazione della Conferenza Episcopale USA aveva fatto in fretta e furia un comunicato, e poi dato una intervista all’Associated Press prima che strane idee venissero messe in circolazione. In queste interviste, aveva “paragonato la chiusura delle interviste al vecchio stile da scuola cattolica, per cui un bambino parla e tutti sono costretti a rimanere dopo la scuola.”

“I nostri briefing – aggiungeva Sister Walsh – erano popolari perché erano gli unici alternativi a quelli che faceva il Vaticano, e il maggior numero di media americani lavora in inglese e spagnolo,” e perché “i nostri cardinali sono stati profondi e divertenti.”

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E si scagliava contro “il tweet più inusuale” dopo la notizia della chiusura, quello di Andrea Tornielli, “autore dell’articolo della ‘Stampa’” che aveva portato alla chiusura. “Abituato ad avere una sponda interna, ha twittato riguardo gli eventi media USA: ‘Silenziati i cardinali americani: basta briefing alternativi’.”

Era consapevole che le fughe di notizie non sarebbero terminati. E infatti, il post del giorno dopo sul suo blog parlava di “ulteriori fughe di notizie,” quasi a voler dire che la colpa non fosse degli eventi americani.

Aveva già un cancro in remissione dal 2010, che era tornato a farsi sentire lo scorso anno. Fu naturale per lei lasciare Washington e gli incarichi istituzionali, e tornare nella nativa Albany in cui aveva scoperto la vocazione, ricoverata in un hospice a fianco al convento regionale delle Suore della Misericordia in cui lei entrò come una novizia 17enne nel 1964.

Per venti anni nella comunicazione dei vescovi Usa, era diventata il primo direttore donna delle relazioni con i media dopo aver coordinato la comunicazione della Giornata Mondiale della Gioventù di Denver nel 1993. Come capo della comunicazione, aveva affrontato la scia positiva del viaggio di Giovanni Paolo II, ma anche le divisioni costanti che sfociarono poi nello scandalo pedofilia nel 2002, e la strenua opposizione dei vescovi USA al presidente Barack Obama su temi caldi come la riforma sanitaria.