Da queste sollecitazioni del papa abbiamo contattato don Paolo Selmi, presidente della ‘Casa della Carità’ dell’arcidiocesi ambrosiana, per comprendere in quale modo il povero può diventare testimone di speranza: “Al paragrafo 19 del documento finale del Sinodo della Chiesa universale leggiamo: ‘Nel cuore di Dio c’è un posto preferenziale per i poveri, gli emarginati e gli esclusi, e perciò anche in quello della Chiesa. In loro la comunità cristiana incontra il volto e la carne di Cristo, che, da ricco che era, si è fatto povero per noi, perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà. L’opzione preferenziale per i poveri è implicita nella fede cristologica. I poveri hanno una conoscenza diretta del Cristo sofferente che li rende annunciatori di una salvezza ricevuta in dono e testimoni della gioia del Vangelo. La Chiesa è chiamata a essere povera con i poveri, che sono spesso la maggioranza dei fedeli e ad ascoltarli, imparando insieme a riconoscere i carismi che essi ricevono dallo Spirito, e a considerarli soggetti dell’evangelizzazione’.
Dove sta il Vangelo, dove sta la speranza nelle donne e negli uomini segnati dalla povertà? Fondamentalmente nel fatto che il Figlio di Dio ha fatto suo “quello stato” per condividere fino in fondo la storia degli ultimi; quella ‘disarmante presenza’ che chiede che uno sia amato/amata per quello che è! Non c’è nessuna sublimazione della povertà. L’ingiustizia che porta alla povertà va tolta. Ma l’uomo, l’umano va amato per quello che è e quello che il punto di partenza per la risalita”.
Nel messaggio papa Leone XIV ha scritto che 'la carità è la madre di tutte le virtù': allora praticare la carità è importante?
“È l’apostolo delle genti che lo dice in 1 Cor 13,13: ‘Ora rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma di la più grande di tutte è la carità’. E’ Gesù stesso che lo insegna a Simone il fariseo a ‘commento’ dei gesti di delicata attenzione che una donna ha nei suoi confronti: ‘molto le è perdonato perché molto ha amato’. Quindi sì, praticare la povertà è importante”.
'Aiutare il povero è infatti questione di giustizia, prima che di carità': in quale modo dare seguito a queste parole?
“Nella ‘Lettera a Silla’ p. Silvano Fausto ha scritto: ‘Non devi sfamare gli affamati. Devi solo condividere il tuo pane con la fame dell'altro. Così farai quel gesto, semplice e possibile a tutti, che se tutti lo facessero, risolverebbero il problema. La fame c'è perché non c'è solidarietà. Non devi sfamare gli affamati. Devi solo condividere il tuo pane con la fame dell'altro. Così farai quel gesto, semplice e possibile a tutti, che se tutti lo facessero, risolverebbero il problema. La fame c'è perché non c'è solidarietà. Non la povertà è il male, ma l'ingiustizia che ne è la causa’.
Tutte le povertà (da quella di ‘chi è privo di mezzi di sostentamento materiale’ a quella di ‘chi è emarginato socialmente e non ha strumenti per dare voce alla propria dignità e alle proprie capacità, la povertà morale e spirituale, la povertà culturale, quella di chi si trova in una condizione di debolezza o fragilità personale o sociale, la povertà di chi non ha diritti, non ha spazio, non ha libertà’) sono forme di disuguaglianza. O meglio, esito di iniquità.
L’individuazione delle ‘cause strutturali’ delle povertà, e la lotta contro di esse, implicano la condanna di ogni tentazione di colpevolizzare i poveri. I quali, avverte ancora l’esortazione apostolica ‘Dilexi te’, ‘non ci sono per caso o per un cieco e amaro destino. Tanto meno la povertà, per la maggior parte di costoro, è una scelta. Eppure, c’è ancora qualcuno che osa affermarlo, mostrando cecità e crudeltà’.
Cecità. Crudeltà. Le cose vanno chiamate coraggiosamente con il loro nome. Relegare le povertà nell’ambito delle colpe, delle sole responsabilità personali o morali di chi cade nell’indigenza, è una visione miope, cieca. E un atto di vera e propria insensibilità umana. Di crudeltà”.
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In quale modo la cultura fa rima con accoglienza?
“E’ l’accoglienza che deve diventare una cultura. E in Casa della Carità, ma come anche in tante realtà del territorio della nostra Diocesi, la gentilezza e l’accoglienza sono il punto di partenza per guardare l’altro negli occhi e far emergere la storia di ognuno. Ma, sempre più spesso, operatori sociali e volontari avvertono di operare in un clima striato di sfiducia, di insofferenza, di sospetto, se non di aperta repulsione nei confronti di chi è in povertà. E di chi cerca di tendere la mano, a chi è in povertà.
Istituzioni pubbliche, rappresentanze politiche, enti del terzo settore, imprese profit, istituzioni religiose, cittadini, siamo tutti responsabili del clima culturale che rischia di colpevolizzare il povero. E delle cause strutturali che lo inchiodano a un’esistenza non degna di un essere umano. Ma siamo anche chiamati, tutti, a contribuire al bene comune, a edificare un mondo che garantisca non solo l’uguaglianza, ovvero stessi trattamenti e stesse risorse a tutti, ma anche l’equità, che riconosce le differenze, per dare a ciascuno adeguate opportunità. Questa è la questione culturale: non ridurre l’altro alla sua povertà, ma andare alla radice della povertà, non ghettizzarla”.