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Poupard: Giovanni Paolo II pensava che la cultura fosse l'ethos di un popolo

Il cardinale Poul Poupard nella sua biblioteca  | Il cardinale Poul Poupard nella sua biblioteca, sullo sfondo una foto di Giovanni Paolo II | CNA/ Daniel Ibáñez Il cardinale Poul Poupard nella sua biblioteca | Il cardinale Poul Poupard nella sua biblioteca, sullo sfondo una foto di Giovanni Paolo II | CNA/ Daniel Ibáñez

Sono passati dieci anni e sembra ieri che Giovanni Paolo II ci ha lasciati. Ma in molti cuori il Papa polacco è ancora vivo. Soprattutto per chi ha lavorato e vissuto con lui per creare una Chiesa che sapesse affrontare le sfide del post Concilio. Sono stati anni di grande creatività, di continuo confronto culturale, di cambiamenti epocali  e storici in tutto il mondo, di grandi aspirazioni religiose.

Per rileggere insieme quelle pagine ho deciso di andare a trovare uno dei “cardinali di Wojtyła” Paul Poupard nel suo appartamento carico di libri e ricordi nel grande complesso di San Calisto a Trastevere. Francese, cresciuto in Curia con Giovanni XXIII e Paolo VI, raffinato uomo di cultura il cardinale è stato uno dei più stretti collaboratori di Giovanni Paolo II e insieme al Papa polacco ha creato il Pontificio Consiglio per la Cultura. Classe 1930, nato in un paesino Bouzillé, nella Francia del Nord ovest, Poupard ha studiato alla Sorbona e lavorato in Segreteria di Stato. Poi inizia il pontificato di Giovanni Paolo II e inizia una grande avventura.

“Ho avuto il privilegio di conoscere Karol Wojtyła in tempi lontani, nel secolo scorso. Allora era un collaboratore del Santo Papa Giovanni XXIII, e c’era un prelato polacco Andrej Deskur che era di cultura francese e così ogni giorno ci vedevamo e chiacchieravamo tra noi. E mi diceva spesso? Conosci il mio amico Karol? Devi conoscerlo tu che hai una cultura così vasta hai una lacuna che dobbiamo colmare. Così siamo andati tutti insieme a mangiare una pizza, eravamo tutti giovani allora.”

E’ il primo ricordo della amicizia che poi si sviluppò negli anni. Il cardinale riceve i suoi ospiti nella grande biblioteca che custodisce decine di migliaia di volumi in tutte le lingue. Tre grandi finestre e una parete curva la rendono suggestiva. Tra i quadri e le icone nei piccoli spazi senza libri appare spesso il volto sorridente di Giovanni Paolo II.

“ Una volta ho cenato con il cardinale Karol Wojtyła era in questa stanza. Questo appartamento era all’epoca quello di un laico polacco che Paolo VI aveva nominato come sottosegretario del Pontificio Consiglio per i Laici, una donna australiana e un polacco.

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All’epoca ero cappellano dell’Istituto san Domenico avevo come penitenti due delle sue figlie che mi invitarono a cena con Wojtyła. Lui mi chiese che cosa facessi in segreteria di stato, dove lavoravo allora.”

Si apre l’album dei ricordi e si rilegge la storia della Chiesa nel post Concilio.

“Ricordo una visita in Polonia alla Università cattolica di Lublino e Wojtyła era il responsabile per la cultura della Conferenza Episcopale Polacca e abbiamo passato un intero pomeriggio nella biblioteca della Università a parlare. Chi mi avrebbe detto che qualche mese dopo sarebbe diventato Papa e poi avrebbe scelto me per far nascere il dicastero della Cultura in Vaticano!”

Come è nata l’idea del Pontificio consiglio per la cultura?

Quando è diventato Papa Wojtyła io ero rettore dell’ Institut Catholique de Paris, e mi nominò vescovo di Parigi con l’incarico di portare la cultura come preoccupazione per la Conferenza episcopale francese. Poi un anno dopo il primo giugno del 1980 l’ho ricevuto all’ Institut Catholique. A Parigi era stato invitato dell’UNESCO, e poiché aveva il senso delle cose,  voleva onorare la cultura cattolica ( anche contro il parere di qualche consigliere) e prima di andare all’ UNESCO l’ho ricevuto all’Istituto. Dopo la visita pensavo che tutto era andato bene e sarei tornato ai miei studi. Ma mi sbagliavo. Dieci giorni dopo il Papa mi chiama per tornare a Roma e succedere al cardinale Franz König al Segretariato per i non credenti che allora riguardava in effetti la metà dell’ Europa che era sotto la dittatura ateista.

Ma la sua idea per me era la cultura. Non me lo disse subito, ma soltanto durante un pranzo di lavoro, il primo di una infinità di pranzi di lavoro, mi disse: la culture! Con la sua voce profonda. Ed abbiamo creato il Pontificio Consiglio per la Cultura e ho avuto una vita ministeriale molto lunga che è durata oltre 25 anni.

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Qual era la idea di cultura per Giovanni Paolo II?

Nella idea di Wojtyła la cultura è l’ethos di un popolo, io lo traduco: è l’anima di un popolo. E Giovanni Paolo II aveva spiegato proprio nella visita a Parigi del 1980 questo concetto, la cultura è dell’uomo per l’uomo, che senza cultura non c’è un popolo. Quindi fondamentale per la Chiesa. Il Pontificio consiglio serviva a far capire alla Chiesa la importanza della cultura e avere in mente di evangelizzare le culture ed inculturare il Vangelo due cose che vanno insieme, secondo il Concilio.

La sfida della cultura cattolica al mondo e sempre più attuale?

Nella mia gioventù, io sono angioino, del nord della Francia, io vivevo in una famiglia cristiana, tutti i vicino lo erano e credevo che fosse così tutto il mondo! Poi ho capito che, anche senza saperlo, che ero stato formato da una cultura cattolica.

E parlando con Giovanni Paolo II dicevano che la Chiesa Cattolica senza nemmeno rendersene conto, perché la riflessione su questo arrivò con la Ecclesiam suam di Paolo VI, faceva cultura non soltanto per i cristiani ma anche per gli altri. E così dopo due millenni l’Europa viveva con la cultura cristiana, cioè con la concezione della persona, dell’uomo e la donna, del matrimonio, il lavoro la famiglia e tutto il resto che fa la vita.

Oggi siamo in un processo di secolarizzazione, per cui in un primo tempo la Chiesa ha perso questo “magistero indiretto” sugli altri, e poi in un secondo momento che stiamo vivendo ora, lo sta perdendo anche per i propri figli. Perché in pratica la gente senza nessuna riflessione crede che tutto quello che fa è naturale. Invece non è così.

Allora aiutiamo la Chiesa a capire l’importanza che ha la cultura sul modo di comportarci, di vivere, di pensare e di fare. E se non siamo attenti man mano la fede, senza che ci sia una vera apostasia in pratica come si perde. Questo vedevamo con Giovanni Paolo II.

Allora mantenere la cultura cattolica in dialogo con gli altri. E il progetto di fare un unico dicastero tra cultura e dialogo interreligioso era l’idea che nasceva dopo l’implosione del sistema sovietico, perché era evidente che tutto si sarebbe fatto sul terreno della cultura.

E i temi degli ultimi incontri che ho fatto erano proprio un dialogo sui valori e sui grandi temi etici.

Che lingua parlavate?

Tra noi parlavamo francese. Una volta ad un pranzo ufficiale con tanti cardinali, e il Papa disse: che lingua parliamo oggi? E non era una civetteria perché davvero aveva padronanza di almeno cinque, sei lingue. Del resto doveva parlare sempre una lingua diversa dalla sue lingua madre.

Qualche ricordo speciale legato alla Francia a Parigi?

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Ricordo che quando venne a Parigi per la GMG si temeva un fiasco, anche il cardinale Lustiger lo pensava, invece si arrivò ad un milione di giovani nel 1997, i giovani a Longchamps. Sono dei ricordi magnifici. Ognuno si sentiva amato.

Nel giugno del 1980 mi ricordo ci fu il primo grande incontro con i giovani a Parc des Princes. Da allora si è riscritta la storia. Il Papa iniziò ad accompagnare con la sua voce i ragazzi che cantavano e poi arrivò il momento di parlare. E a pochi anni del ’68 in pieni anni del boom disse: La società del consumo non rende l’uomo felice!

E lui stesso era commosso da quell’incontro. E dopo ogni viaggio che preparava chiedeva sempre che ci fosse un “ Parc de Princes”, un incontro con i giovani. Così sono nate le GMG. E quando diceva che erano i giovani che avevano creato la GMG era vero.

E la santità personale?

Mi sono interrogato molto. E ricostruendo il passato potrei dire che dal primo incontro la sensazione è stata quella di trovarsi davanti ad una persona non solo di grande valore intellettuale, ma con una impronta particolare. Per il momento più toccante era la messa nella cappella privata. Lui era un pozzo di preghiera. Era immerso nella preghiera. Non aveva bisogno di fare una omelia. Il suo modo di celebrare era un insegnamento.

Un giorno con il Vangelo di Giovanni, io lessi il passo: Pietro mi ami? E capivo come lui lo vivesse intensamente. Era davvero Pietro in persona. Poi la malattia. Quando riceveva a pranzo si passava prima per la cappella, e poi dal corridoio alla sala da pranzo. Negli ultimi tempi attendeva già seduto senza paura di mostrare la sua debolezza. Si è consumato senza risparmiare neanche la sua debolezza. Una abnegazione che è dimenticanza di se stesso.