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Solo Dio ci aiuta ad uscire dalla tentazione di ansia, depressione e sfiducia del mondo

Un colloquio con il vescovo Massimo Camisasca sul suo ultimo libro

Il vescovo Massimo Camisasca  |  | www.parrocchiasantagiulia.eu Il vescovo Massimo Camisasca | | www.parrocchiasantagiulia.eu

Costruire una città per l’uomo è possibile, a patto di aprirsi alla trascendenza. Siamo immersi in un’epoca complicata, viviamo un presente dilatato che ci preoccupa e affanna. Sono tempi di disorientamento, ma non siamo impegnati in una corsa verso la distruzione. E il disorientamento, spesso, può sfociare in un nuovo slancio umanistico. E’ questo il nocciolo delle riflessioni di mons. Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia e Guastalla, nel libro ‘Abita la terra e vivi con fede’, che toccano le sfide più impegnative con le quali oggi l’uomo e la comunità in cui vive, è chiamato a rapportarsi: la famiglia, la donna, i problemi legati all’educazione, la fragilità e la malattia, la povertà, il lavoro, i migranti, la politica, l’ecologia. E il bisogno di Dio, che è il primo capitolo e che serve da bussola per orientarsi nelle pagine successive.

Al vescovo Camisasca abbiamo chiesto di spiegarci l’obiettivo del libro: “Ho raccolto in questo libro le mie riflessioni maturate in 8 anni di ministero episcopale a Reggio Emilia sui temi più vivi della vita di oggi: l'educazione, le fragilità, la povertà, i migranti, la donna, l’ecologia, il lavoro, i figli... Ho pensato a un titolo che raccogliesse da una parte l’invito ad abitare la terra, cioè a non fuggire dalle condizioni in cui ci troviamo a vivere e, anzi, a lottare per migliorare il nostro essere nel mondo. D’altra parte ho voluto, con chiarezza, raccontare come la fede vissuta generi un nuovo modo di vivere la terra”.

Come leggere sotto la lente del magistero sociale della Chiesa questo tempo?

Come è stato ripetutamente detto da più parti, forse la chiave interpretativa più riassuntiva è quella di Zygmunt Bauman: società liquida. La rapidità delle trasformazioni culturali, politiche e sociali crea un sentimento di instabilità, favorisce il disorientamento e l’assenza di punti di riferimento. Senza nessun progetto reazionario, né conservatore occorre però riconoscere che senza riferimenti non si può camminare in avanti e non si costruisce nulla. Il mio libro vuole offrire alcune luci essenziali per fondare una speranza non illusoria.

Quanto è importante riflettere in questo anno sull’enciclica ‘Laudato sì’?

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Ho dedicato un intero capitolo all’enciclica. Ritengo quel testo essenziale per aprirci ad una ecologia integrale. Non solo, dunque, al rispetto della terra, né tantomeno ad una divinizzazione della natura, ma ad una integrazione fra i doni che le diverse creature rappresentano. In primo luogo l’uomo, assieme a lui e in ordine a lui, gli animali, le piante e tutto il resto del creato. Chi distrugge il creato contribuisce alla distruzione dell'uomo. Ma anche chi distrugge l’uomo, si pensi ad eutanasia ed aborto, alle guerre, alle nuove povertà,  contribuisce a distruggere la natura.

Quindi un tema che ricorre nella sua analisi è il rapporto alterato tra soggetto e comunità, individualismo e fraternità: qual è il punto di equilibrio tra questi due poli?

La comunità vive della persona e la persona della comunità. In altre parole: una comunità non è composta di individui che si mettono assieme soltanto per vivere meglio o emergere di più, ma di persone, cioè di soggetti profondamente convinti che soltanto nella relazione potranno scoprire la propria vera identità. Oggi l’aspetto comunitario della vita è molto dimenticato, anche nella Chiesa. Eppure questa è la vocazione più profonda. Siamo chiamati a essere un popolo, il popolo di Dio, uniti profondamente nel Corpo di Cristo. Questo popolo vive in piccole e grandi comunità. L’educazione alla vita comune è un elemento fondamentale e oggi per lo più sconosciuto nella società e nella Chiesa. Eppure la storia della Chiesa ci parla continuamente della rinascita della vita comune come strada per la realizzazione dello stesso evento ecclesiale e come luce per tutti i popoli.

Lei dedica un capitolo al tema della fragilità in questo periodo: cosa abbiamo imparato?

“Abbiamo veramente imparato qualcosa? Questo sarebbe il punto decisivo del cambiamento dell’intera società: il riconoscimento della nostra nativa fragilità. Noi non siamo Dio e non possiamo vivere senza Dio, perché siamo creature. Ho ricevuto talvolta una pessima impressione da parte di scienziati che affermavano verità contraddette il giorno dopo ma sostenute purtroppo come incontrovertibili anche di fronte alle differenti verità affermate da altri scienziati. Mi è sembrato molto più umano il mondo dei medici e dei paramedici. Riconoscere la propria debolezza non significa non avere coraggio, non rischiare, non costruire. All’opposto, il riconoscimento sereno della propria fallibilità ci fa cercare gli insegnamenti e gli appoggi giusti. Nella classe politica ho visto purtroppo, molto spesso, una grande debolezza non riconosciuta.

In questo periodo quanto sono importanti la fraternità e la comunità?

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La pandemia ha messo in luce il male radicale del nostro tempo che è l’individualismo e, assieme, ha rivelato i frutti di solitudine generati dal ripiegamento su se stessi e sul proprio star bene. Dobbiamo tutti aiutarci a riscoprire non solo la necessità degli altri per la nostra vita, ma anche la bellezza dell'essere comunità fondata sulla nostra comune creaturalità e sulla necessità di camminare assieme verso Dio.

Come vivere questo tempo da ‘cristiani’?

Innanzitutto riconoscendo di essere dei poveri peccatori, fragili e bisognosi di perdono e di salvezza. Lo stupore per la misericordia continua con cui Dio rialza la nostra vita dalla polvere e con cui immette sempre nuove energie e nuova luce nelle menti e nei cuori, ci aiuta ad uscire dalla tentazione di ansia, depressione e sfiducia che governa il mondo. Ma, ancor di più, genera una capacità di perdono, di accoglienza e di creatività che costituisce un anticipo della comunione definitiva che tutti ci attende.