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Venezia, la provocazione forzata di una moschea in una chiesa

Chiesa di Santa Maria della Misericordia | Chiesa di Santa Maria della Misericordia, Venezia | Wikimedia Commons Chiesa di Santa Maria della Misericordia | Chiesa di Santa Maria della Misericordia, Venezia | Wikimedia Commons

Una moschea in una chiesa. La provocazione dell’artista svizzero Christoph Büchel, uno con la passione di abbattere gli steccati ingaggiato dal padiglione islandese della 56esima biennale di Venezia, è diventata un caso internazionale. Perché – come fa notare don Gianmatteo Caputo, delegato per i beni ecclesiastici del patriarcato di Venezia – “nella vicenda si sono confusi e superficialmente mescolati due piani e ambiti che invece sono - e devono restare - ben distinti per la loro serietà e complessità: la questione relativa all’installazione artistica del padiglione islandese della Biennale d’Arte e la richiesta di realizzare una moschea nella città di Venezia,” tra l’altro senza coinvolgere né le autorità religiose implicate né la cittadinanza, risultando così “una grande forzatura.” E sottolinea che sarebbe opportuno che la stessa comunità musulmana “prenda le distanze da questa provocazione rilanciando la richiesta di un suo spazio per la preghiera che sia adeguato, dignitoso e riconosciuto da tutta intera la comunità civile.”

La storia è questa: in vista della 56esima Biennale di Venezia, Christoph Büchel pensa di installare una moschea all’interno di una chiesa. Si tratta di una installazione artistica, che diventa però anche luogo di culto islamico, dove si può andare a pregare. Non semplicemente una forma d’arte, ma anche un luogo di preghiera.

Per utilizzare un luogo di culto (così come eventualmente per cambiarne la destinazione religiosa d’uso, seppur provvisoriamente), serve un permesso della diocesi, da norme concordatarie. Che non lo concede, perché - sottolinea - serve un maggiore coinvolgimento di tutte le autorità interessate, dagli esponenti del mondo islamico della città (mai coinvolti dall’artista) alla Sovrintendenza. Insomma, non è una scelta da fare a cuor leggero. Coinvolge la comunità cristiana di Venezia, che si vede sottrarre un luogo di culto per una installazione che non è meramente artistica. Ma coinvolge anche la comunità islamica di Venezia, frastagliata tra 30 nazionalità diverse, che si lamenta di non avere una moschea nella città – hanno un capannone a Marghera, ma loro vorrebbero un luogo bello per il culto. E coinvolge anche la città di Venezia.

Non ricevendo l’ok da parte del patriarcato, l’artista sonda gli edifici di culto che non sono proprietà del Patriarcato. E trova la chiesa di Santa Maria di Misericordia, nel Sestiere Cannaregio. La chiesa è stata ceduta a ‘privati’ dal 1973. Non si tratta di una chiesa sconsacrata. È semplicemente chiusa al culto dal 1969. Adiacente, c’è la Scuola di Misericordia, che è stata di proprietà, dal 1920 al 1974, di Italico Brass, il nonno di Tinto, artista che la usava per le sue installazioni. Ora è di proprietà dello Stato, e su internet c’è anche un bando di concorso per il restauro dell’edificio.

Poco si sa però dei proprietari della chiesa di Santa Maria della Misericordia, che concedono lo spazio - alcuni report parlano di un edificio di proprietà di una compagnia delle luci. E così si crea un luogo di culto musulmano nel cuore di una chiesa, mentre la comunità islamica approfitta dell’occasione per reclamare una propria moschea, e i fedeli musulmani cominciano ad andarci a pregare.

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La questione si innesta in un acceso dibattito politico. Venezia andrà presto a votare sia per il nuovo sindaco, sia per il nuovo governatore della Regione, e dunque il mondo della politica ha tutto l’interesse a sfruttare l’onda del momento in senso elettorale. Il tutto si traduce in una pubblicità per l’artista, ma lascia anche tanti dubbi sulla controversia dell’installazione.

In questo clima si inserisce l’intervento di don Caputo diramato il 12 maggio. Il quale sottolinea che la richiesta dell’artista aveva ricevuto “una prudente risposta negativa” alla richiesta di utilizare una chiesa per l’installazione di una moschea, che tra l’altro confondeva il problema meramente artistico con quello della richiesta di una moschea da parte della comunità islamica di Venezia.

Così il patriarcato, già lo scorso febbraio, aveva fatto sapere che per rispetto verso i credenti, la città e i soggetti interessati bisognava tenere in considerazione “il fatto che un’installazione del genere avrebbe avuto implicazioni culturali, religiose e di vita pubblica che non avrebbero potuto essere risolte solo nel rapporto fra chi dispone di uno spazio e i realizzatori della proposta artistica.”

E aveva notato che chiedere una chiesa “per il suo alto valore simbolico e artistico, non era adeguato alle finalità della richiesta,” e suggeriva di rinviare il tutto alla Biennale di Architettura, “per discutere il problema del riuso urbano di parti della città, in modo d’avere anche il tempo di valutare ogni aspetto coinvolgendo tutti i soggetti interessati, nonché per condividerne le finalità artistiche.”

Uno dei punti principali è che né la comunità cristiana, né quella islamica, né la città sono stati coinvolti. Nota, don Caputo, che nessun membro della comunità musulmana è stato coinvolto dall’artista nei contatti con il patriarcato, e “questo aspetto è risultato non positivo e non opportuno, soprattutto dopo che la Diocesi aveva richiesto il coinvolgimento di tutti i protagonisti, compresa la Biennale, la Soprintendenza, il Comune, il Paese espositore, soggetti che si ritrovano in conferenza di servizi prima dell'avvio della Biennale anche per aspetti meno rilevanti di questo.”

Insomma, la realizzazione finale appare come “una grande forzatura ed una sostanziale strumentalizzazione di tutti i soggetti coinvolti, compresa in primo luogo la comunità musulmana che, pur partendo da una richiesta legittima (ecco il secondo aspetto: l’esigenza di una moschea a Venezia), si vede così offerto un luogo che viene occupato in modo non regolare, per finalità ‘seconde’, ovvero artistiche, e aggirando di fatto questioni che, invece, sono serie e rilevanti.”

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Il problema non è tanto nella richiesta di una moschea in città – una “questione importante, che va affrontata,” afferma don Caputo – quanto proprio per il modo in cui si è arrivati all’artista Buchel. Sottolinea don Caputo che “non c'è polemica nelle affermazioni del Patriarcato e neppure in queste mie considerazioni, ma solo la volontà di uscire dall'ambiguità, che pone tutti in atteggiamento di sospetto o peggio di pre-giudizio, per giungere finalmente ad un’oggettiva e leale chiarezza alla quale  finalmente, nelle ultime ore, le dichiarazioni di molti stanno cercando di puntare.”

L’unico ad avere avuto un riscontro positivo è stato l’artista, che ha avuto – afferma don Caputo – “il suo ‘guadagno’ di fama ottenuto utilizzando (meglio sarebbe dire: sfruttando) Venezia come una vetrina, senza curarsi troppo del rispetto delle regole, delle leggi ma soprattutto della sua storia e dei suoi abitanti, lasciando uno strascico di polemiche inutili dalle quali la città - già di per sé fragile e sensibile - rimane sempre più indebolita.”

E chiede alla comunità islamica di prendere le distanze. Perché anche loro hanno approfittato della situazione. Il presidente della comunità islamica della laguna, Mohamed Amin Al Ahdab, siriano trapiantato a Venezia da 30 anni, va ormai a Santa Maria della Misericordia a pregare. “Questo – ha detto - è anche un modo per mettere alla prova e sensibilizzare la città. Un gesto d’arte, all’insegna del dialogo, di cui anche le preghiere fanno parte. Una moschea provvisoria, che chiuderà come una tenda con la fine della Biennale, ma sarà servita al confronto”.

Ma è davvero questo il confronto che si deve cercare? Don Caputo sottolinea chiede piuttosto che la comunità musulmana “prenda le distanze da questa provocazione rilanciando la richiesta di un suo spazio per la preghiera che sia adeguato, dignitoso e riconosciuto da tutta intera la comunità civile. Ci troverebbe interlocutori attenti e sensibili, a favore di una soluzione condivisa, senza incomprensioni e senza ferite nei confronti di alcuna comunità religiosa. E sarebbe anche l’occasione per lasciar cadere la provocazione costruita dall’artista: l'“opera”, infatti, senza la preghiera, svuota quel luogo del suo significato artistico e vale ben poco o… nulla, perché manca di vita.”