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Papa Francesco, l'esempio di San Toribio per i vescovi del Perù

Papa Francesco in Perù | Papa Francesco incontra i vescovi del Perù nell'arcvescovado di Lima, 21 gennaio 2018 | Vatican Media / ACI Group
Papa Francesco in Perù | Papa Francesco incontra i vescovi del Perù nell'arcvescovado di Lima, 21 gennaio 2018 | Vatican Media / ACI Group
Papa Francesco in Perù | Papa Francesco con i vescovi del Perù, arcivescovado di Lima, 21 gennaio 2018 | Pool AIGAV
Papa Francesco in Perù | Papa Francesco con i vescovi del Perù, arcivescovado di Lima, 21 gennaio 2018 | Pool AIGAV

La missione lasciata ai vescovi peruviani da Papa Francesco nell’ultimo giorno del suo viaggio in Perù è ardua: prendere esempio da San Toribio, che fu arcivescovo di Lima e che Papa Francesco definisce, con San Giovanni Paolo II, “costruttore di unità ecclesiale”.

D’altronde, San Toribio di Mongrovejo era già stato dato come esempio ai vescovi del Perù in visita ad limina lo scorso maggio da Papa Francesco. E oggi, a Lima, di fronte al Cardinale Cipriani Thorne, arcivescovo della città, al presidente della Conferenza episcopale, l'arcivescovo Pineda, e a tutto l’episcopato riunito, il Papa guarda di nuovo a questo prelato del XVI secolo, spagnolo e vescovo di quella che allora si chiamava “la ciudad de los reyes” per volontà di Filippo II, che svolse la sua opera pastorale percorrendo per tre volte i 450 mila chilometri quadrati della sua diocesi, promuovendo l’evangelizzazione degli indigeni, imparando la loro lingua, pubblicando il catechismo anche in quechua e ayamara, oltre che in spagnolo, e fondò proprio a Lima, nel 1591, il primo seminario dell’America Latina.

Sono queste le imprese cui si riferisce Papa Francesco, quando menziona San Toribio, ritratto spesso nell’iconografia come un nuovo Mosè che attraversa il fiume e arriva all’altra riva dove lo aspettano le popolazioni indigene. E Papa Francesco ricorda questa iconografia.

San Toribio, l’uomo che ha saputo arrivare all’altra sponda”, è il titolo della riflessione di Papa Francesco. Che ricorda come il santo abbia accettato di andare in quelle terre, lasciando il terreno sicuro della sua vita precedente da inquisitore di Granada per andare nel Nuovo Mondo.

Ecco i cinque motivi per cui il vescovo che “volle passare dall’altra riva” deve essere un esempio per i vescovi peruviani.

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Il primo è che andò “dall’altra riva in cerca dei rifugiati e dei dispersi”, lasciando le “comodità del vescovado”, impersonando quel vescovo callejero che tanto piace al Papa, trascorrendo 18 dei suoi 22 anni di episcopato fuori dalla città, perché “sapeva che questa era l’unica forma di pastorale”, essere vicino e fare testimonianza, consapevole che la “gioia del Vangelo è tutto per il popolo”.

Ma fu un percorso non solo geografico, ma anche culturale. Ricorda il Papa che San Toribio dispose di tradurre i catechismi in lingua locale con il Terzo Concilio di Lima, chiese al clero di studiare e far conoscere la lingua dei fedeli per amministrare i sacramenti in modo comprensibile. Una visione – afferma il Papa – “urgente per noi pastori del XX secolo”, che devono imparare linguaggi nuovi come “quello digitale”. San Toribio comprese che, oltre alla presenza in un luogo, c’era bisogno di suscitare “processi nella vita delle persone perché la fede metta radici e sia significativa”. Evangelizzare la cultura “ci chiede di entrare nel cuore della cultura stessa, affinché questa sia illuminata dall’interno dal Vangelo.

Quindi – è il terzo motivo – San Toribio andò sull’altra riva con la carità, perché sapeva che “la forma più sublime dell’evangelizzazione era plasmare nella propria vita la donazione a Cristo”, difendendo le popolazioni originarie da abusi ed eccessi che pativa fino a scomunicare nel 1585 il governatore di Cajatambo, attaccando il sistema di corruzione e di interessi che si era creato, sapendo bene che il bene spirituale non può essere separato dal giusto bene materiale, e per questo non si deve avere paura di “denunciare gli abusi e gli eccessi commessi dal suo popolo”. Insomma, “non c’è evangelizzazione che non annunci e denunci ogni mancanza contro la vita dei nostri fratelli, specialmente dei più vulnerabili”.

Il quarto motivo è quello della formazione dei sacerdoti, fondamentale per “generare pastori locali”, e per quello “difese l’ordinazione dei meticci – quando essa era molto discussa – cercando di favorire e stimolare che il clero, se doveva distinguersi in qualcosa, fosse per la santità dei pastori e non per l’origine etnica”. Una formazione che proseguiva, dopo il seminario, nelle continue visite, conoscendo i suoi sacerdoti fino a donare la sua camicia nuova ad uno di loro, ricordando loro che erano pastori e non commercianti.

Infine, il tema dell’unità: San Toribio “promosse in modo mirabile e profetico la formazione e l’integrazione di spazi di comunione e partecipazione tra le diverse componenti del Popolo di Dio”. Una unità preceduta da “grandi tensioni e conflitti”, che non possono essere negati, ma devono essere “affrontati e accettati”, tenendo in testa – come ha spiegato il Papa nella Evangelii Gaudium – “l’unità prevale sempre sul conflitto”.

Da qui, l’invito ai vescovi di “lavorare per l’unità” e non rimanere “prigionieri di divisioni che riducono e limitano la vocazione alla quale siamo stati chiamati”, e ricorda che "ciò che attirava nella Chiesa primitiva era come si amavano. Questa era – è e sarà – la migliore evangelizzazione".

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L’ultimo passaggio dall’altra riva di San Toribio fu la sua morte, ma – ricorda Papa Francesco – non era solo: “andava incontro ai santi seguito da una grande moltitudine alle sue spalle. È il pastore che ha saputo riempire la sua valigia di volti e di nomi. Essi erano il suo passaporto per il cielo”. Conclude il Papa: “Voglia il cielo, fratelli, che quando dovremo compiere l’ultimo viaggio, possiamo vivere queste cose. Chiediamo al Signore che ce lo conceda”.

Il dialogo con i vescovi

Resta un po’ di tempo, il Papa concede un po’ di domande e risposte. L’audio del Papa è difficilissimo da comprendere. Si captano alcune parole. 

Durante l’incontro con i vescovi, si è parlato anche del Sinodo Pan-Amazzonico. Papa Francesco ha ricordato l’esperienza della Conferenza CELAM di Aparecida del 2007, quando lui per la prima volta è arrivato a comprendere il problema dell’Amazzonia. Poi ha parlato dei popoli dell’Amazzonia, ha sottolineato che “sono popoli capaci di trasmetterci una cultura, di darci una cultura”.

Il Papa ha dunque ricordato di nuovo l’esempio di San Toribio, che ha portato il Vangelo che la vita ci esige di portare la gioia del Vangelo.

Papa Francesco ha poi aggiunto che “in questo momento, l’Amazzonia è terra di nessuno, di sfruttamento umano degli stranieri che vengono a rubare”, e che c’è il problema della tratta che è “lavoro schiavo”. Il Papa ha sottolineato che la questione gli fu chiamata all’attenzione proprio all’arrivo in aeroporto, quando ha visto un cartello “Attenti alla tratta”.

Quindi, Papa Francesco ha parlato dell’inculturazione, ha detto che non dobbiamo dare loro la nostra cultura. E ha sottolineato che questo è il problema che è successo in Canada, come gli è stato raccontato da un governante canadese (il Papa si riferisce alla visita del premier canadese Justin Trudeau, durante la quale fu affrontato anche il tema delle popolazioni indigene, ndr).

Per il Papa, ciò che va fatto è ora “tornare ai nonni, tornare alle radici”, e questo è il primo passo.

Oltre al problema ecologico, il Papa sottolinea che il sinodo per l’Amazzonia presenta anche il problema dei diaconi permaenti. “La prima volta – ha detto – l’ho trattato a Rio de Janeiro, quando mi sono riunito con i vescovi per la Giornata Mondiale della Gioventù”.

Perché questo tema? “C’è – sottolinea il Papa - una tribu con una cultura, con una etnia e allora arrivano missionari che non sono evangelici, ma di comunità ecclesiali che non sono riconosciute nemmeno dagli evangelici”, e con un corso veloce permettono qualunque cosa.

C’è, in queste parole, il problema della proliferazione delle sette. Il Papa ha detto che è molto importante la formazione, insegnare “a predicare, a battezzare, a portare avanti i compiti propri del diacono” in un noviziato, non può essere ridotto a un mese o un anno, ma che serve comunque qualcuno che possa predicarle la Parola di Dio.

Papa Francesco ha aggiunto che il problema del diaconato va studiato in maniera seria, e che se ne parlerà al Sinodo Panamazzonico convocato per il 2019, dove ci saranno delle proposte e i padri sinodali ne terranno conto, la discerneranno e vedranno se metterla in pratica.

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È stato chiesto poi al Papa come praticare la pastorale e applicare le norme. Il Papa ha detto che “se andiamo a cercare nei libri, andiamo a perdere”, ma che un padre e una madre sanno come risolvere i conflitti. Quindi la soluzione è la paternità, che è garantito dal sacramento dell’ordine. Per questo, dice il Papa, la cosa del Papa è fare un esame di coscienza sulla paternità, pensando sempre a San Toribio, che lasciò una camicia ad un suo sacerdote.

Papa Francesco ha poi raccontato di don Tonino Bello, il vescovo che “era molto paterno” e parlava di “un ordine del grembiule” – orden del delantal nelle parole di Papa Francesco. E don Tonino Bello – ricorda ancora Papa Francesco – quando ordinava un vescovo e lo ungeva moltissimo sulle mani perché non rimaesse attaccato al denaro.

Certo, aggiunge il Papa, “è vero che ci sono situazioni in cui si deve ricorrere a mezzi disciplinari”, ma il Papa consiglia di non prendere mai alcuna decisione irreversibile sui sacerdoti senza un processo che lo garantisce, perché il padre “deve anche essere giusto”.

Papa Francesco poi parla del problema della regione di Juli, citando il libro “Juana” di don Luigi Ginami, un sacerdote in servizio presso la Santa Sede. Il libro parla di una donna vittima di violenze incredibili e costretta a seppellire la sua bimba morta nella porcilaia, e dice al vescovo: “Realmente sono rimasto impressionato dalla povertà del suo popolo”.

Ma il tema più importante riguarda la crisi politica, che “non è un problema solo del Perù, ma di tutta l’America Latina”, che soffre di decadenza e corruzione da parte dei dirigenti. Si parla, in Perù, del giro di tangenti del caso Odebrecht, che dal Brasile ha toccato anche i politici locali, ma per il Papa si tratta solo di un piccolo aneddoto, che però racconta molto della situazione.

Per il Papa, la politica è “molto in crisi per la corruzione”, e per questo c’è una opposizione che “accusa i corrotti”, e poi vengono accusati vicendevolmente.

Non è facile, dice il Papa, evangelizzare il mondo della politica, e a volte “la denuncia è l’unica arma, l’arma della persuasione, della formazione politica”.

“Se cadiamo in mano a persone che intendono il linguaggio della corruzione siamo fritti”, dice il Papa. E poi si chiede cosa sia successo al cammino verso la Patria Grande dell’America Latina, un percorso che soffre “su impulso di un capitalismo liberale disumano”, si chiede “quali sono le politiche?”.

“La politica è molto inferma, molto inferma, almeno in America Latina”, dice il Papa. E chiede alle diocesi di creare coscienza in ogni diocesi. Quindi, il Papa parla del “mondo castrense”, quello di Lima, con il problema dei militari, che devono essere soggetti di “una attenzione spirituale che gli rafforzi”, perché la vocazione “di servizio, la vocazione militare è una vocazione grande, e l’essere cappellani è un fatto di zelo pastorale”.

Il Papa chiede attenzione per gli uomini e le donne che lavorano per l’ordine pubblico e per la difesa della patria, e non è “una scusa” che alcuni diventino corrotti, perché si deve continuare a lavorare.

Infine, la questione della politica, con un focus particolare sul Perù. “Che succede al Perù, che tutti i suoi presidenti quando terminano l’incarico lo mettono in prigione?” E chiede ai vescovi di rispondere alla domanda, di comprendere il sistema.

articolo aggiornato alla 00.23 del 22 gennaio con un ulteriore ascolto delle parole del Papa. L'intero incontro può essere visualizzato sul portale Vatican News