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Cardinal Filoni: “Il Papa si aspetta molto dalla Colombia”

Cardinal Fernando Filoni | Il Cardinal Fernando Filoni durante un incontro con il gruppo ACI nel Palazzo di Propaganda Fide | Daniel Ibanez / CNA Cardinal Fernando Filoni | Il Cardinal Fernando Filoni durante un incontro con il gruppo ACI nel Palazzo di Propaganda Fide | Daniel Ibanez / CNA

Un “laboratorio” per il Sudamerica. Così, in una intervista con ACI Stampa, il Cardinal Filoni ha definito la Colombia, al termine di una visita di sette giorni che lo ha portato a toccare vicariati apostolici mai visitati dal Prefetto della Congregazione dell’Evangelizzazione dei Popoli, ma anche ad incontrare autorità civili a vari livelli. Con l’obiettivo di sviluppare non solo la missione ad intra, ma anche quella ad extra, sollecitando la Chiesa colombiana a produrre missionari.

 Il Papa ha detto che andrà in Colombia. Che impatto potrà dare la visita del Santo Padre?

I colombiani sanno che il Papa andrà in Colombia, e ho trovato molto entusiasmo in vista della visita. Credo che l’arrivo del Papa possa dare consistenza dal punto di vista sociale, confermando il processo di pace in atto tra il governo e i guerriglieri. Ma può avere anche un impulso ecclesiale: il Papa ha molta stima della Colombia, si aspetta molto da questa Chiesa. E questa Chiesa deve essere incoraggiata ad assumersi questa responsabilità missionaria.

Una responsabilità missionaria di cui si è parlato durante il XII Congresso missionario…

Sì, al Congresso c’era molto entusiasmo, i partecipanti hanno dato una risposta vivace. Ma ora è tempo di tradurre in pratica le idee. I membri delle chiese particolari che hanno partecipato potrebbero fare un buon lavoro all’interno delle proprie Chiese. Ma ne devono essere consapevoli. Se manca la coscienza, manca l’assunzione di responsabilità.

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In cosa la Colombia può essere una “guida” per il resto del Sudamerica?

Visitando la sede del CELAM (la Conferenza Episcopale dell’America Latina) a Bogotà, ho detto che la Colombia può essere un laboratorio non solo in ordine a quelle che sono le idee principali da portare avanti, ma anche sulla base dell’esperienza e dell’applicazione delle idee fornita agli altri. Credo sia stato recepito.

Anche l’accordo di pace potrebbe rappresentare un esempio per altre situazioni nella Regione…

Indubbiamente, anche l’accordo di pace potrebbe essere una forma di laboratorio. A causa del narcotraffico, della guerriglia, la Colombia ha vissuto momenti difficili. La speranza è di arrivare a qualcosa di positivo.

Ma a che punto è l’accordo? Che idea si è fatto durante la sua permanenza?

Non si deve mai pensare che il dialogo sia facile e immediato. Ci vuole volontà nel progredire, e se questa manca si rompe tutto. Io vedo questa volontà rafforzarsi. Lo vedo dai gesti concreti: la liberazione delle persone detenute, il fermare gli attentati. La Chiesa mi pare sia coinvolta con determinazione, entusiasmo, capacità. Siamo consapevoli che non tocca alla Chiesa fare la pace, ma essere tra quelli che sostengono il dialogo per la pace.

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Lei ha visitato due vicariati apostolici. Perché i vicariati apostolici sono così importanti?

Uno degli scopi del viaggio era appunto quello di consacrare due nuovi vicari apostolici. Quelli che sono in Colombia sono soprattutto in Amazzonia (come quelli di Venezuela, Perù, Ecuador), in territori difficili da raggiungere, dove normalmente non ci sono strade e si accede attraverso i fiumi o piccoli aeroplani. Si tratta di Chiese in formazione, delle quali il Papa è nominalmente il titolare. Il Papa vi agisce attraverso un suo vicario apostolico, e questo permette a noi della Congregazione di fornire una assistenza particolare, sia dal punto di vista organizzativo, che del personale, che amministrativo: sono zone povere, vengono sostenute dai benefattori e dalle Pontificie Opere Missionarie.

In generale, i vicariati sono territori di frontiera. Che problemi affrontano?

Ognuno ha i suoi problemi e le sue sfide, i vicariati in Colombia non sono tutti nello stesso posto. Io ne ho visitati due: uno nella zona afro-americana, e uno in una zona di indios e mettici. Alcune popolazioni che vivono nel territorio sono nomadi, e dunque i missionari sono costretti a seguirli, secondo le loro esigenze. Nei territori di questi vicariati ci sono problemi legati alla guerriglia, ma anche all’inquinamento dei fiumi. Nel mio incontro con il Presidente della Repubblica, ho chiesto di ricordare che lo sfruttamento minerario, l’inquinamento non sia a discapito delle popolazioni più vulnerabili.

Per i missionari nei Vicariati, invece, quali sono i problemi?

Uno dei problemi è dato dai collegamenti. Il prezzo del gasolio è altissimo, non è facile fare rifornimenti, per raggiungere i villaggi si deve risalire il fiume per giorni su una barca a motore. È un problema economico. I missionari devono anche affrontare il problema della solitudine: noi li incoraggiamo a vivere in piccole comunità, che si spostano con le popolazioni. E poi il problema della salute. L’opera missionaria è complessa.

Su cosa si sono concentrati i suoi colloqui con le autorità civili?

Il Presidente della Repubblica, l’autorità massima del Paese, mi ha voluto dare gentilmente udienza. Mi ha parlato dell’impegno per mettere fine alla guerriglia attraverso il dialogo. Un impegno che anche Papa Francesco ha incoraggiato. La gente ha bisogno di vivere nella pace, ma anche nell’equilibrio sociale. Il Paese è potenzialmente molto ricco, ogni contributo deve avere di mira il benessere della popolazione. Con le autorità locali ci sono stati incontri più formali. Il nostro obiettivo era di mostrare alle autorità e alla popolazione che questi vicariati non sono ai margini della Chiesa. Anzi. Li consideriamo il centro della Chiesa anche se da un punto di vista geografico sembrano più una periferia.

C’è la crisi in Venezuela, e sono molti i colombiani di là del confine. Come vive la Chiesa locale questo problema?

C’è preoccupazione. Quando il Venezuela era economicamente più florido, molti colombiani – si parla di 2-3 milioni – erano andati di là del confine. Ora, con la crisi, c’è la preoccupazione che queste persone possano ritornare, ed è un dato da prendere in considerazione: sono tanti, ci vorranno anche campi di accoglienza. È una situazione preoccupante.

In generale, che impressione ha tratto della Chiesa colombiana?

Si tratta di una Chiesa importante, con diocesi molto floride dal punto di vista delle vocazioni e altre invece meno “ricche” da questo punto di vista. Papa Francesco ha già chiesto ai vescovi che ci sia più equilibrio in questo senso, che le diocesi più “strutturate” della Colombia facciano una missione non solo all’interno del territorio, ma anche fuori dal territorio. Nel mio intervento al Congresso Missionario, ho sottolineato la necessità di formare una coscienza missionaria e la necessità di assumersi le responsabilità, anche di territori di frontiera come i vicariati.

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Quale è stata la sua proposta?

È difficile pensare che ogni diocesi si prenda in cura un vicariato. Abbiamo avanzato la proposta che ogni metropolia prenda quasi come responsabilità, attraverso l’offerta di un sacerdote per diocesi o un sostegno economico, anche se la conferenza episcopale ha già commissione particolare per il sostegno economico dei vicariati, ed è un aspetto positivo. Ci sono 11 vicariati in Colombia, e poche più metropolie. L’idea è piaciuta. Verrà discussa.