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All’ONU, la Santa Sede spiega la sua sovranità e quantifica i numeri del suo impegno

Consiglio dei Diritti Umani, ONU | Consiglio dei Diritti Umani, Nazioni Unite, Ginevra | da Flickr Consiglio dei Diritti Umani, ONU | Consiglio dei Diritti Umani, Nazioni Unite, Ginevra | da Flickr

Inizia con una lunga spiegazione su sovranità, giurisdizione e differenze tra Santa Sede, Stato di Città del Vaticano e Chiesa Cattolica il rapporto che la delegazione della Santa Sede ha presentato il 24 novembre di fronte al Comitato ONU sulla Convenzione per l’eliminazione di ogni discriminazione razziale (CERD, dall’acronimo inglese). La spiegazione era doverosa: serve a prevenire i (prevedibili) attacchi alla Chiesa del comitato ONU, che si sospetta andrà oltre le sue prerogative, e si concentrerà su temi che poco hanno a che fare con la Convenzione, ovvero il sacerdozio femminile e la posizione della Chiesa sul gender. Si vedrà, al dibattito di oggi.

Ma intanto la Santa Sede ha spiegato per filo e per segno il suo impegno nell’implementare il trattato, nel diffonderne e difenderne i principi in sede internazionale, e nell’applicarlo all’interno del territorio. A parlare è l’arcivescovo Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede all’ufficio ONU di Ginevra. Con lui, in delegazione il professor Vincenzo Buonomo, della Segreteria di Stato; padre Joseph Koonamparampil, della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli; mons. Richard Ghyra, segretario della Missione ONU.

L’impegno della Santa Sede sulla convenzione è certificate dal fatto che la Santa Sede ne è stato uno dei primi firmatari (adottata dalle Nazioni Unite nel 1965, la Santa Sede l’ha firmata nel 1966), e questo non è – spiega il nunzio Tomasi – solo “un gesto simbolico,” ma rappresenta “la convinzione che la discriminazione razziale è assolutamente intollerabile perché tutte le persone hanno la medesima dignità umana”.

Una convinzione che vengono dall’insegnamento della Chiesa che l’uguaglianza degli uomini “si basa sull’immagine e somiglianza di Dio e sulla commune natura razionale”.

Subito, l’arcivescovo Tomasi ci tiene a spieegare le distinzioni tra Santa Sede, Chiesa Cattolica e Stato di Città del Vaticano. La Santa Sede “è membro della comunità internazionale, in relazione, ma separata e distinta, con il territorio dello Stato di Città del Vaticano sul quale esercità sovranità”.

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Sullo Stato – che si costituì nel 1929 – la Santa Sede “implementa” i “principi di base e diritti umani autentici riconosciuti nella convenzione”. Diversa la Chiesa cattolica, che “esercita una autorità religiosa in accord con la legge canonica”. Si tratta – spiega l’arcivescovo Tomasi – di “una società spirituale, composta da quelle persone che, per scelta personale, aderiscono alle dottrine alla morale ai sacramenti alla disciplina sulle pratiche religiose proposte dalla Chiesa cattolica”.

Specifica l’arcivescovo Tomasi: “La Santa Sede ha una autorità religiosa, ma riconosce la giurisdiazione delle autorità nazionali” e quindi “desidera perciò reiterare senza riserve che le persone che vivono in una particolare nazione sono sotto la giurisdizione delle legittime autorità di quella nazione” così come fa la Santa Sede con i cittadini dello Stato di Città del Vaticano.

Insomma, “la Santa Sede non ha giurisdizione civile su ogni membro della Chiesa Cattolica”.

Questo è da comprendere in via preliminare. Già altre volte, i Comitati delle Nazioni Unite hanno mostrato di ignorare la differenza, e di utilizzare le convenzioni per attaccare i principi morali della Chiesa cattolica partendo da un presunto controllo che la Santa Sede deve avere su tutti i cittadini che aderiscono alla Chiesa cattolica. E, sulla base di queste ragioni, si è chiesto persino il cambiamento delle norme morali e religiose che regolano la vita della Chiesa (ad esempio, fu criticata la confessione).

Detto questo, la Santa Sede può presentare il suo rapporto, diviso in tre parti. La convenzione – spiega la delegazione della Santa Sede – viene ulteriormente implementata dalle nuove norme del codice penale dello Stato di Città del Vaticano, promulgato l’11 luglio 2013. Questa riforma del codice “comprende una chiara e forte” sezione sulla “eliminazione della discriminazione razziale” e “include una condanna” per quanti si macchiano di questo crimine che va dai cinque ai dieci anni di reclusione. E poi ci sono le norme supplementary, che proibiscono “un vasto raggio di crimini cntro l’umanità”. Una “legislazione robusta” che “manifesta l’importanza di difendere le persone da azioni che sono infuocate da pregiudizi e odi razziali”.

Oltre all’impegno legislative sul territorio dello Stato – nota l’arcivescovo Tomasi – la Santa Sede porta Avanti la sua missione di “agente morale e religioso” diffondendo il messaggio alla base di queste leggi ai membri della Chiesa cattolica e a tutti gli uomini di buona volontà, utilizzando anche “i suoi servizi media” (dall’Osservatore Romano a Radio Vaticana) per “promuovere i principi appena menzionati e condannare la discriminazione razziale”.

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“La storia dimostra che la verità che tutti gli uomini e donne sono create uguali, con certi diritti inalienabili, deve essere costantemente riaffermata” e che “questa morale è universalmente applicabile”. E infatti, dai media, dalla Santa Sede, questi principi vengono diffusi anche nelle nazioni, attraverso “numerose dichiarazioni delle Conferenze episcopali nazionali” o attraverso gli stessi vescovi o il lavoro pastorale di preti, religiosi, laici.

Non solo. La Santa Sede va oltre l’esortazione morale, e dà una risposta concreta al problema della discriminazione razziale con un lavoro incessante sul territorio. In particolare, con l’educazione nelle scuole. Ci sono 215.784 scuole cattoliche nel mondo (dagli asili alle università) che educano “oltre 64 milioni di giovani” la maggioranza dei quali “non sono cattolici”, ed è noto “per secoli, attraverso le sue scuole primarie e secondary, la Chiesa Cattolica ha promosso il diritto di tutti, senza alcuna distinzione di razza, colore, o origine etnica e nazionale, all’eguaglianza e alla possibilità di godere il diritto di educazione e preparazione professionale”. Un lavoro che è stato “efficace” nel combattere “i pregiudizi che portano alla discriminazione razziale.” E poi c’è il lavoro fatto nei 5034 ospedali, 16 mila dispensary e 611 lebbrosari, che curano 116185 persone, e che hanno promosso “eguaglianza, comprensione reciproca e coesistenza pacifica tra tutti i gruppi razziali” del mondo.

 Insomma, un impegno che va ben oltre i confine dello Stato Vaticano. Un impegno che la Santa Sede – afferma l’arcivescovo Tomasi – “si impegna a continuare”.