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Un servizio di EWTN News

Il Venerabile Luigi Rocchi, quando la sofferenza "si tramuta in danza"

Luigi Rocchi

“Ho conosciuto Luigi Rocchi nel 1972 e gli sono stato vicino fino al momento della morte, avvenuta il 26 marzo 1979. Sono andato a casa sua a Tolentino, insieme ad un frate cappuccino, fra Francesco, almeno un centinaio di volte. Luigi è stata una personalità di grande livello. E’ stato in amicizia con l’allora vescovo della diocesi di Macerata, mons. Ersilio Tonini, e con il prelato di Loreto, mons. Loris Capovilla, già segretario di papa san Giovanni XXIII”. 

Così è iniziata la testimonianza di Silvestro (Silvio) Profico all’Abbadia di Fiastra, nella diocesi di Macerata, nel cammino giubilare proposto da don Rino Ramaccioni, con la collaborazione dell’Azione Cattolica diocesana, il Sermirr di Recanati ed il Sermit di Tolentino, sul venerabile Luigi Rocchi ‘uomo di speranza’.

Il Venerabile Luigi Rocchi è nato a Roma il 19 febbraio 1932. Poco dopo la famiglia si trasferì a Tolentino, loro città di origine. Dall’età di quattro anni, iniziò a manifestare una serie crescente di patologie: cadeva continuamente; a scuola non era in grado di muoversi e di correre come gli altri bambini, finendo per essere emarginato; per ricevere la Prima Comunione, dovette avanzare verso la balaustra sorretto dalla mamma. Gli fu diagnosticata la distrofia muscolare progressiva o morbo di Duchenne. Cominciò ad aver bisogno di un bastone per camminare, poi di due, alla fine anche una pietruzza diventava per lui un ostacolo insormontabile e per salire al piano superiore di casa i familiari dovevano caricarselo in spalla. Inoltre, a nove anni fu coinvolto in un incendio per un bombardamento aereo, che gli lasciò in eredità una completa calvizie.

Di fronte a questa situazione, ebbe inizialmente un comprensibile atteggiamento di ribellione, che produsse in lui tristezza, crisi esistenziale, abbandono della fede e completa disperazione. La sua mamma, una donna dalla fede semplice e convinta, giunse ad accettare la malattia del figlio e a tenerselo in casa, contrariamente all’abitudine dell’epoca di ricoverarlo in qualche istituto, ripetendo spesso una frase: ‘Luigino, Gesù ti ama’, che sarà l’inizio della sua conversione.

Nel frattempo, giunto in età giovanile, Luigi dovette ritirarsi da scuola, rinunciare a formarsi una famiglia, perdere il lavoro da sarto, perché non più in grado di tenere l’ago tra le dita, rinunciare alle compagnie di cui era l’anima e vivere in una cupa solitudine. Si mise a letto a diciannove anni, imprecando contro il suo destino. Ma, attingendo ai valori appresi in famiglia, in parrocchia e nell’Azione Cattolica, frequentata durante l’adolescenza, egli ebbe un moto di reazione e, con la forza disperata di un naufrago, rivolse la sua invocazione a Gesù crocifisso. La preghiera a poco a poco divenne il respiro della sua giornata. 

In quel periodo iniziò a partecipare ad alcuni pellegrinaggi a Lourdes e a Loreto e alle diverse iniziative dell’UNITALSI e dei ‘Volontari della sofferenza’ e strinse amicizia con altri infermi, che lo aiutarono ad accogliere la sua situazione come una speciale partecipazione all’amore di Dio e alla sofferenza di Gesù. Immerso sempre più nel mistero della croce e continuando a ‘sentirsi un niente, ma un niente visitato da Dio’, morì a Macerata il 26 marzo 1979.

 

Chi era Luigi Rocchi?

“A lui piaceva la frase: ‘Quando si una candela si può scegliere solo di ardere in una cantina o su un altare’; lui aveva scelto l’altare. Vedeva il mondo in una finestra, ma aveva imparato a proiettare il suo sguardo verso orizzonti infiniti: la condizione sofferente di ogni uomo o donna era per lui un orizzonte conosciuto, nel quale la sua delicatezza dell’animo si muoveva agilmente, come i piedi e le mani non potevano, in cui egli non era spettatore, ma protagonista; non un ‘povero’ da consolare, ma un consolatore. Per me è stato, ed è ancora ogni volta che rileggo le sue lettere conservate gelosamente, uno ‘scomodo’ consigliere spirituale. Dal suo letto, immobile, era coinvolto, meglio di me, nel vivo dei problemi del mondo. Era un ‘gigante’ di fede e di impegno sociale”.

 

Come ha conosciuto il venerabile Luigino Rocchi?

“Io facevo parte di un’associazione di solidarietà internazionale, ‘Rete Radiè Resch’, che aiutava i cristiani in Terra Santa e mons. Oscar Romero, ed un’amica di questa associazione, Gabriella Bentivoglio, conosceva Luigi e lo ha avvicinato all’associazione e da quel momento ha fatto parte dell’associazione,diventando la nostra ‘anima’ vivente, il consigliere spirituale, perché si immedesimava in tutti i problemi del mondo, pur stando inchiodato ad un letto pieno di sofferenze; però amava tutti ed aveva un legame forte in Dio e nell’umanità. Si coinvolgeva in ogni realtà. Noi sostenevamo le popolazioni della Terra Santa, del Centro America con mons. Romero, e dell’Argentina con le ‘Madri di Plaza de Mayo’. Lui, sofferente, camminava con noi, facendo sue le nostre proposte attraverso la preghiera e con i contributi scritti: è stato un gigante della fede”.

 

Per quale motivo era un ‘crocifisso’ vivo?

“Luigi ha ben coniugato l’amore per Dio con l’amore per il prossimo, seguendo tutti i problemi vicini e lontani: era diventato una ‘cattedra’ di alta umanità in cui Dio e l’uomo sono strettamente legati: il mare ed il vento sono di Dio, la barca ed i remi sono degli uomini, soleva ripetere. L’uomo è compartecipe della creazione di Dio e deve impegnarsi nel disegno di Dio: la Provvidenza fa la sua parte, ma ci chiede di cooperare. Ha ‘teorizzato’ il ruolo dei laici nella Chiesa: essere attivi per non dimenticare i ‘crocifissi’ vivi, perché i poveri hanno bisogno di amore e dignità, prima del pane, di giustizia e non di elemosina, in quanto affermava che era impossibile salvarsi da soli: ‘siamo in una nave e se la nave affonda tutti affogano’. Lui si è definito ‘partigiano’ della speranza, in quanto non pensava solo alla propria malattia”.

 

E cosa significava, per lui essere ‘partigiano’ della speranza?

“Sul suo letto c’erano i problemi di tutti. Era un maestro del ‘noi’, perché era la comunità che andava coniugata: ‘ La mia sofferenza è quella degli altri; la mia croce è l’impotenza ad aiutare gli altri’. Quindi vedeva tante necessità e non poteva fare niente, ma nutriva speranza in Dio. Il suo ‘compito’ era portare speranza e non il compatimento della sofferenza per la sua malattia. Aiutava chi era nella disperazione, come ha raccontato il card. Capovilla ad un convegno dei medici cattolici: neanche Gesù amò la croce, ma volle amare l’uomo a costo della croce. Quella di Luigi Rocchi è una testimonianza rara di speranza per un ammalato così grave”.

 

In quale modo il venerabile Rocchi, pur ‘inchiodato’ in un letto, si interessava del mondo?

“Noi andavamo molto spesso a trovarlo e gli abbiamo regalato anche un televisore, che non possedeva per mancanza di soldi, e da quel momento (con l’aiuto del nipote ad accenderlo) si sentiva coinvolto nelle sofferenze del mondo: si sentiva parte della comunità e cittadino del mondo. Infatti diceva che non ci si salva  da soli, invitandoci ad essere solidali ed ad essere parte attiva della comunità in cui si vive. La televisione è stata una porta di accesso al mondo, scoprendo le sofferenze dell’umanità”. 

 

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