venerdì, dicembre 05, 2025 Donazioni
Un servizio di EWTN News

Processo Palazzo di Londra, l’appello riprende a febbraio

Un momento della prima udienza del Processo di Appello sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato

Non è il processo di primo grado, non c’è più un Papa che funziona anche come arbitro, e non è più il tempo delle istituzioni vaticane l’una contro l’altra. Le quattro udienze che si sono tenute finora del processo di appello sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato hanno dimostrato un sostanziale cambio di rotta, perlomeno da un punto di vista filosofico, nell’intero impianto processuale. E ora, c’è tempo fino a novembre per presentare le eccezioni (il 7 novembre, con replica entro il 28 novembre), mentre si riprenderà il dibattimento a partire dal 3 febbraio.

È conosciuto come “processo Becciu”, perché tra gli imputati c’è il cardinale Angelo Becciu, il primo porporato, anche lì per volontà di Papa Francesco, a subire un processo penale in Vaticano da un tribunale di Stato, e a non essere giudicato da un collegio di cardinali, come era previsto nel vecchio ordinamento. E, certo, il profilo del Cardinale Becciu è quello più noto, la condanna per peculato appare “tirata per i capelli” in una sentenza in cui si riconosce che non ci sono stati vantaggi finanziari per la sua famiglia, e il peso della vicenda ha portato persino il cardinale a fare un passo indietro e a non partecipare al Conclave che ha eletto Leone XIV, il quale lo ha comunque poi ricevuto in udienza nelle settimane successive all’elezione.

Ma è anche il processo della vicenda del Palazzo di Londra, l’immobile di lusso di Sloane Avenue che la Santa Sede voleva acquistare e ristrutturare per poi rivendere, affidandosi prima al broker Raffaele Mincione, poi al broker Gianluigi Torzi, e quindi riprendendone il controllo, lamentando al processo che sia Mincione che Torzi avessero voluto estorcere denaro e che fossero quasi in combutta.

È il processo di Cecilia Marogna e della sua presunta attività di intelligence per la liberazione di ostaggi vaticani in territori ostili, attività che alla fine si sarebbe risolta in vantaggi personali. È il processo, in fondo, ad un sistema vaticano, con tutti contro tutti.

Nel processo di primo grado sui fondi della Santa Sede, il cardinale Angelo Becciu è stato condannato a 5 anni e 6 mesi di reclusione per peculato e truffa, ma l'appello si sta svolgendo in questi giorni. Altri imputati hanno ricevuto condanne, tra cui Enrico Crasso (7 anni), Raffaele Mincione (5 anni e 6 mesi), Cecilia Marogna (3 anni e 9 mesi) e Gianluigi Torzi (6 anni). In generale ci sono state condanne per un totale di circa 37 anni di carcere e l'ordine di confiscare 166 milioni di euro, ma anche diverse assoluzioni che mostravano come la ricostruzione del promotore di Giustizia non fosse esente da lacune. 

Solo la Segreteria di Stato e l’Ammistrazione del Patrimonio della Sede Apostolica avevano deciso di non appellarsi alla sentenza, mentre addirittura il promotore di Giustizia vaticano aveva lamentato che la sua ricostruzione dei fatti non era stata propriamente considerata. Nel frattempo, però, è cambiato tutto. È cambiato il tribunale – la corte di appello è presieduta dall’arcivescovo Alejandro Arellano Cedilla, che è anche presidente della Rota, e che ha un sensus ecclesiae differente – ed è cambiato anche il Papa.

Papa Francesco era intervenuto nel processo con quattro rescripta che avevano cambiato in corsa le regole delle indagini (o, nella versione del promotore, avevano precisato alcune vicende, permettendo un migliore svolgimento delle indagini). Papa Francesco era persino nella stanza delle trattative quando Gianluigi Torzi arrivò a Santa Marta con l’idea di cedere, sì, le quote del palazzo di Londra con diritto di voto, ma non senza guadagnarci qualcosa. Leone XIV ha, invece, fatto sapere da subito che avrebbe fatto fare al processo il suo corso.

Nel frattempo, in estate, alcune intercettazioni hanno mostrato se non altro una pressione su uno dei testimoni, monsignor Alberto Perlasca, e coinvolgevano del promotore di Giustizia, che aveva ricevuto a sua volta dei messaggi.

Sono tutte vicende che portano ai colpi di scena del processo di appello. Se, nel primo grado, gli interrogatori avevano portato ad un cambio di narrativa che il promotore di Giustizia non aveva recepito nella sua requisitoria, ora, invece, sembra esserci la volontà di guardare in maniera più precisa alle carte.

Il primo colpo di scena, già nella prima udienza. Sulla base delle intercettazioni pubblicate in estate, alcune difese propongono una ricusazione del promotore di Giustizia Alessandro Diddi. La richiesta di ricusazione è stata accettata, a decidere sarà la Cassazione vaticana, ma nel frattempo Diddi ha dovuto lasciare l’aula, in attesa della decisione sulla sua eventuale incompatibilità con la celebrazione dell’appello. Non è una sospensione del processo, il promotore di Giustizia è un ufficio collegiale. Tuttavia, la sola ammissione della ricusazione ha fatto scricchiolare la posizione dell’accusa vaticana.

Quindi, il secondo colpo di scena. Le difese hanno notato che il promotore di Giustizia non aveva presentato il suo appello in tempi, modi e forma corrette, e che dunque il suo appello doveva essere considerato non ammissibile dalla Corte. La Corte di Appello ha valutato, e accettato la ricostruzione delle difese. Dunque, l’appello del promotore di Giustizia è stato respinto, alcune delle sentenze di assoluzione sono passate direttamente in giudicato, e il dibattimento non potrà portare in nessun caso a pene più severe. Se ci sarà revisione, potrà essere fatta solo in favore delle difese, i cui appelli sono ancora validi.

Infine, il terzo colpo di scena. Con un colpo di teatro, nell’udienza del 6 ottobre, il promotore di Giustizia ha chiesto persino la sospensione del processo, contestando l’autorità della Corte d’Appello stessa di dichiarare inammissibile il ricorso.

La Corte d’Appello vaticana ha rigettato la proposta dell’Ufficio del Promotore di Giustizia e ha dato quasi quattro mesi di tempo durante i quali le difese dovranno presentare, entro il 7 novembre prossimo (con possibilità di replica entro il 28 novembre), delle memorie sulle questioni pregiudiziali che hanno eccepite. Tra queste questioni, tra l’altro, c’è anche la legittimità dei rescripta voluti da Papa Francesco.

Sono tre colpi di scena che testimoniano un cambiamento di passo importante. Tra l’altro, nel respingere alcune delle richieste, la Corte di Appello ha rimesso il sistema vaticano al centro, censurando l’uso della legislazione della “Repubblica limitrofa” sia da parte delle difese che da parte del promotore di Giustizia.

Nel processo di I grado, quando presidente del Tribunale era Giuseppe Pignatone (ora in pensione) si era spesso fatto ricorso all’esempio italiano, e addirittura si era “scherzato” che il diritto vaticano fosse stato “temperato” con la normativa italiana. Ma ora, il diritto vaticano è tornato al centro. L’idea è anche quella di fermare la “vaticanizzazione” della Santa Sede che si era ingenerata con il processo di I grado, laddove le esigenze del processo erano andate oltre le necessità della Santa Sede – basti pensare alle perquisizioni della Gendarmeria vaticana in Segreteria di Stato, nel Palazzo Apostolico vaticano che è sotto il controllo della Guardia Svizzera pontificia, e nell’Autorità di Informazione Finanziaria, dove si era impossessato di documenti di intelligence provenienti da autorità estere, cosa che aveva provocato la sospensione dell’AIF dal sistema di scambi sicuri sul riciclaggio del Gruppo Egmont.

Il processo iniziato con una denuncia dell’Istituto per le Opere di Religione nei confronti della Segreteria di Stato si trova dunque di fronte al paradosso di un Promotore di Giustizia che ricorre in Cassazione contro la Corte d’Appello perché la sua ordinanza “configura un provvedimento abnorme, assolutamente anomalo”, perché “nessuna norma del Codice di Procedura penale prevede che sia effettuato un vaglio su quelli che sono contenuti e forma dei motivi di impugnazione. Tutto questo può creare una situazione di stasi processuale, alla quale solo la Corte di Cassazione può porre rimedio”.

Il promotore di giustizia Zannotti ha anche detto che le conseguenze di questo atto “potrebbero ricadere sull’Ufficio del Promotore di Giustizia”, il quale, se la Cassazione dichiarasse effettivamente nulla l’ordinanza di inammissibilità, verrebbe a “perdere un grado di giudizio”. Insomma, “una reazione a cortocircuito” che “comprometterebbe” la posizione del Promotore di Giustizia.

Tra le difese, va notato che l’avvocato Gian Domenico Caiazza, difensore di Raffaele Mincione, , ha rilevato che lo stesso Ufficio del Promotore di Giustizia nel 2022, con il processo Caloia (l’ex Presidente dello IOR) “ha chiesto ed ottenuto la inammissibilità di un atto di impugnazione per genericità dei motivi non più di tre anni fa”. Perché, ha domandato, oggi argomenta l’inammissibilità dello stesso mezzo, senza informarci di cosa accaduto nel frattempo?

Tutti gli avvocati si sono associati all’eccezione e hanno depositato una memoria in Cancelleria.

La Corte, dopo una breve camera di consiglio, ha stabilito che non vi sarà la sospensione del processo come chiesto dal Promotore di Giustizia; tuttavia, verrà dato un ampio margine temporale (fino a febbraio 2026) per permettere alla Cassazione di esprimersi sulla ricusazione del Promotore di Giustizia Alessandro Diddi.

Tutto, alla fine, viene rimandato a febbraio. L’appello, tuttavia, si dimostra ben diverso dal I Grado. È una partita nuova, con un arbitro nuovo, da cui, per ora, il promotore di Giustizia vaticano è stato escluso.

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