Roma, 21 October, 2025 / 2:00 PM
Ottobre è mese di missione e quest’anno soffia nello stesso vento del giubileo della Speranza; e nonostante il contesto di guerra e crisi, essa resta seme di fiducia: un invito ad essere, come dice san Paolo, ‘lieti nella speranza’, attraverso una storia che parla ancora e che ha un nome preciso: p. Ezechiele Ramin, che da missionario comboniano, arrivò in Brasile negli anni ’80 per difendere i diritti degli indios Surui e dei contadini senza terra. Il 24 luglio 1985 fu ucciso durante una missione di pace, quando non aveva ancora compiuto 33 anni.
Comunque, sono stati oltre 60 appuntamenti dedicati al tema del ‘fare missione’ come esperienza universale, per riflettere sul prossimo e le crisi internazionali con decine di ospiti da ogni parte del globo: dai mondi missionari, della fede, della cultura, dell’economia, del giornalismo. Il festival è stato suddiviso in tre tipologie narrative, Bussole, Sguardi, Alfabeti, perché “la risposta a quella che Papa Leone XIV chiama la globalizzazione dell’impotenza, evoluzione della globalizzazione dell’indifferenza non può essere solo parole vuote o parole astratte, devono essere storie e testimonianze, che ci dimostrano che non siamo impotenti, che possiamo e dobbiamo fare qualcosa”.
Quindi è stato dedicato molto spazio alle testimonianze di persone che hanno raccontato con la loro vita che cosa fanno in concreto, come Diane Foley, che è la madre di James Foley, giornalista assassinato dall'Isis, che ha deciso di perdonare l’assassino del figlio, incontrandolo; poi c’ stato il marito dell’iraniana Narges Mohammadi, premio Nobel per la Pace; poi ancora Kim Aris, il figlio di Aung San Suu Kyi, che hanno rappresentato le due donne che non ci sono state, perché sono ancora tenute in ‘ostaggio’ dei rispettivi Paesi. C’è stata la presenza di testimoni dalle zone più ‘calde’ del mondo, dall’Africa alla Terra Santa, dalla Mongolia con il card. Marengo al Perù con mons. César Piscoya che è stato il vicario dell’attuale papa, e Paula Ugaz, giornalista che ha guidato l’inchiesta sugli abusi in Perù e sul movimento ormai soppresso Sodalicio.
Inoltre è stato dedicato uno spazio per i ragazzi, chiamato ‘Casa Missione’, si sono tenuti incontri e laboratori organizzati da vari enti, tra cui anche ‘Missio Ragazzi’ che ha ideato un programma per coinvolgere bambini, preadolescenti, genitori ed educatori; mentre per catechisti, insegnanti, animatori, genitori si è tenuto un incontro esperienziale dal titolo ‘I bambini aiutano i bambini’: è stata l’occasione per presentare lo spirito missionario della Pontificia Opera dell’Infanzia Missionaria (Poim) e condividere spunti e strumenti per percorsi educativi alla fede ed alla missionarietà.
Infatti ‘Missio Ragazzi’ ha organizzato il laboratorio ‘Storie sotto l’Albero con Il Ponte d’Oro’, mensile per ragazzi innamorati del mondo e del Vangelo: sotto un grande albero, immaginando di trovarsi attorno ad un fuoco, ai partecipanti sono state raccontate due storie: una tipica della popolazione Warega nel Sud Kivu, vasta regione della Repubblica Democratica del Congo, raccontata da padre Oliviero Ferro; l’altra ambientata a Cali, in Colombia, in un quartiere periferico della città, dove un grande albero di mango ha insegnato a tutti la gratitudine. Il festival è stato chiuso dalla celebrazione eucaristica, presieduta dal card. Roberto Repole: “Non può esserci nessuna comunità cristiana che non sia discepolato di Gesù’.
Questo è stato il ‘succo’ del terzo festival della missione, intitolato ‘Il Volto Prossimo’, svoltosi a Torino fino a domenica 12 ottobre, promosso dalla Conferenza Episcopale Piemonte-Valle d’Aosta (CEP), da CIMI (Conferenza Istituti Missionari in Italia) e Fondazione ‘MISSIO’ Italia con la direzione artistica della giornalista Lucia Capuzzi e di Alessandro Galassi, regista e documentarista, a cui abbiamo chiesto un piccolo resoconto del festival:
“La missione non è un capitolo a margine della vita ecclesiale, ma la sua ragione stessa. Non riguarda soltanto ‘alcuni inviati lontano’, ma interpella ogni battezzato e ogni comunità, chiamati a vivere la gioia del Vangelo nel cuore del mondo. Un Festival diventa allora spazio di incontro, piazza aperta in cui credenti e non credenti, uomini e donne di culture e religioni diverse possono confrontarsi sulle grandi domande del presente: giustizia, pace, ecologia, dialogo. E’ un tempo per ridare voce a chi non ha voce, per portare al centro della città e del dibattito ciò che di solito resta ai margini”.
Per quale motivo è stato intitolato ‘Il Volto Prossimo’?
“Difficile definire cosa si intenda per missione. L’interrogativo, posto dallo stesso Gesù ad ogni donna e uomo del suo e di tutti i tempi, indica, però, l’orizzonte ai discepoli-missionari. La domanda assume drammatica urgenza nel presente spezzato dai muri, ferito dalla terza guerra mondiale a pezzi, minacciato dal riscaldamento globale.
Ma prossimo indica anche l’estrema affinità, l’identità di sostanza fra le creature, le quali racchiudono un frammento del Creatore. Tutti, in questo senso, siamo prossimi. Una consapevolezza che, però, si acquisisce nel movimento di ‘farsi più vicini’ a quanti sarebbero da tenere a distanza, geografica ed esistenziale. Proprio come al sacerdote e al levita, le ‘buone’ ragioni non mancano per discriminare gli esseri umani in base a categorie di censo, passaporto, genere, condizione esistenziale. Il Samaritano, però, le ribalta con il più semplice e il più missionario dei gesti: l’approssimarsi a chi trova per la strada. Un volto tumefatto nelle cui fattezze sfigurate riesce a scorgere il Volto”.
Qual è ‘il Volto Prossimo’?
“E’ stato il tema scelto per questa edizione, appena conclusa, che raccoglie il mandato evangelico di farsi vicini. Non un concetto astratto, ma un gesto concreto: accorciare le distanze, guardare nel volto dell’altro e riconoscervi un frammento di Dio. Prossimo è chi ci vive accanto, ma anche chi il mondo considera lontano, diverso, scomodo. Farsi prossimi significa ribaltare categorie di potere, di esclusione e di indifferenza, come fece il Samaritano di fronte all’uomo ferito. In ogni volto incontrato brilla la possibilità di un’umanità nuova”.
Papa Francesco ha scritto nel messaggio per l’imminente Giornata mondiale Missionaria, ‘Missionari di speranza tra le genti’: “Esso richiama ai singoli cristiani e alla Chiesa, comunità dei battezzati, la vocazione fondamentale di essere, sulle orme di Cristo, messaggeri e costruttori della speranza’. Come essere oggi missionari di speranza tra le genti?
“Significa non arrendersi al cinismo e alla rassegnazione. Significa raccontare che un altro mondo è possibile e già germoglia nei piccoli segni di solidarietà, nelle esperienze di comunità che accolgono migranti, che custodiscono la terra, che difendono i diritti violati. La speranza non è illusione, ma forza che si traduce in gesti quotidiani di cura, in alleanze trasversali, in scelte concrete di sobrietà e di giustizia.
Le comunità cristiane, in questo orizzonte, possono essere segni di nuova umanità. Non spazi chiusi o autoreferenziali, ma luoghi di fraternità e di apertura, di ascolto e di dialogo. Comunità che non temono di sporcarsi le mani, che accolgono senza etichette, che testimoniano la bellezza del Vangelo nella gioia e nella condivisione. Una Chiesa che si fa tenda, casa aperta, ospedale da campo: così il Volto di Cristo si riflette nei volti di ogni donna e uomo, e la missione diventa cammino comune verso un futuro di pace”.
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