Siamo alle soglie del Natale. Per le nostre strade a farla da padrone luci e addobbi vari mentre nelle parrocchie e diocesi ci si prepara alle celebrazioni di questo periodo a partire dalle Messa di Mezzanotte di domani.

Il Natale suscita in tutti un sentimento di “stupore insieme al desiderio di condividere con i familiari momenti di serenità e di gioia”, scrive sul settimanale “Il Portico” della diocesi di Cagliari l’arcivescovo Giuseppe Baturi, segretario generale della Cei. Il Natale – spiega - “parla del Verbo che è entrato nella nostra storia perché ‘conoscendo Dio visibilmente, per mezzo suo siamo rapiti all’amore delle realtà invisibili’ (Liturgia), quelle essenziali, da cui dipendono il senso del nostro vivere e il compimento del nostro destino. Nella bellezza spoglia del Bambino Gesù la paura dell’assurdo e dell’insensatezza è vinta. Dio si fa carne e, assumendo la condizione umana, dona nuova dignità alle nostre esperienze quotidiane: nel volto dei fratelli e delle sorelle è sempre impressa la verità dell’Amore che ci viene incontro. È un mistero che coinvolge la nostra vita, parte del sentimento di noi stessi e della storia, che ha finalmente un centro e un destino”. Da qui l’invito di Baturi a “guardare con religiosa attenzione la nostra realtà, a volte motivo di incertezza, se non di turbamento, per la violenza o la noia che l’avvolge, e riconoscere in essa i passi del Dio che ci viene incontro in ogni persona e in ogni circostanza”. Il Natale – aggiunge il vescovo di Pavia, Corrado Sanguineti nell’editoriale per il settimanale diocesano “Il Ticino” -  è una festa che “custodisce un fascino particolare: nonostante la crescente secolarizzazione e la trasformazione in qualcosa di molto generico e vago – festa della pace, della famiglia, della solidarietà – o in un grande rito commerciale, il mistero del bambino Gesù, al centro delle rappresentazioni artistiche e dei canti natalizi, continua a parlare, a portare un annuncio di speranza e di vita che rinasce”. Il presepe può diventare occasione per “ritornare a Dio, Signore della nostra storia, Signore della nostra vita”, ha scritto alla diocesi il vescovo di Cuneo-Fossano, Piero Delbosco evidenziando che “tutta la nostra vita è “fatta di segni: alcuni sono più facili da capire e decifrare, altri sono più complessi”. Anche “nell’esprimere la fede e nel celebrare i misteri della vita religiosa in genere e cristiana in particolare usiamo segni, gesti, parole, espressioni vocali di vario genere”, prosegue il vescovo, rilevando che “lo aveva capito molto bene San Francesco quando, ottocento anni fa, aveva ideato il presepe. Nella sua testa non c’era il desiderio di romanzare quell’avvenimento che ha sconvolto la storia”. Anche l’arcivescovo di Cosenza-Bisignano, Giovanni Cecchinato l’ottavo centenario della prima rappresentazione della nascita di Gesù suscitata dal desiderio di Francesco d’Assisi di “vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato” il Figlio di Dio nella sua nascita. “Vedere con gli occhi del corpo” – spiega il presule sul settimanale della diocesi “Parola di Vita”  è una “indicazione molto importante per la nostra esperienza di fede e per la nostra preghiera ed è una disposizione che talora dimentichiamo, pensando che il nostro rapporto con il Signore si giochi tutto, o quasi esclusivamente, nella nostra testa, coi nostri pensieri e le nostre deduzioni razionali; la scelta del poverello di Assisi ci aiuta a entrare nel mistero della fede con la totalità di noi stessi, a fare contatto con la storia di Gesù attraverso i nostri sensi, dato che la festa del Natale vuole annunciarci proprio la grande verità della Incarnazione del Verbo di Dio”. “Vedere con gli occhi del corpo” significa “certamente attivare il senso della vista, ma significa anche connettere ad esso il nostro pensiero, il nostro cuore. Davanti ai nostri occhi passano tante cose, tante persone, tante situazioni vitali, ma non le vediamo tutte. Qualche volta i nostri occhi guardano, ma non vedono. O vedono, ma colgono solo la dimensione più esterna di ciò che i sensi sanno percepire”. Parla della Palestina di oggi il vescovo di Forlì-Bertinoro, Livio Corazza nell’editoriale del settimanale diocesano “Il Momento”: “Betlemme – scrive - è amaramente vuota di turisti e di pellegrini. Lo è stata anche nel tempo della pandemia. Stavolta lo è per le conseguenze di una atroce e insensata guerra fratricida, nella quale i bambini sono stati vittime volute e sacrificate sull’altare dell’odio. Una strage degli innocenti che si ripete”.  Corazza  ricorda che nemmeno al tempo di san Francesco si poteva andare a Betlemme, perché “anche allora le armi e l’odio avevano occupato la Terra santa”. Egli, però, non si arrese. “Il messaggio del Natale non si poteva soffocare: in quel 1223 era ancora di più necessario un vero presepio”. Un Natale con l’ombra della guerra, ricorda anche il vescovo di Brescia, Pierantonio Tremolada: “la grande festa del Dio con noi – scrive sul settimanale diocesano “La Voce del Popolo” -  sopraggiunge mentre sono in corso, vicino a noi, due guerre sanguinose. Le immagini che provengono dai diversi fronti del conflitto testimoniano l’atroce logica che le ispira. Un vero e proprio accecamento porta a non considerare più il valore delle vite umane, a ritenere opportuna la devastazione, a infierire sui più deboli e indifesi”. Il Natale arriva nel pieno di questa “esperienza dolorosa” e  che cosa ha da offrirci? “Non commiserazione, non frasi

consolatorie di circostanza, non esortazioni disincarnate”, sottolinea Tremolada: il Natale è “l’assunzione consapevole della debolezza umana in una prospettiva di speranza, è annuncio della piena solidarietà tra Dio e l’umanità, del suo amore fedele, del suo avvicinamento e della sua condivisione”. “solo accogliendo il volto del Signore si può riscoprire la fraternità” laddove” si perpetuano odio, atti di terrorismo e guerra”, scrive il Patriarca di Venezia, Francesco Moraglia sottolineando che nel presepio osserviamo il Bambino di Betlemme che “tende le mani: chiede accoglienza ma, per accogliere, prima bisogna amare per poi riconoscere l’altro. Prendersi cura di un bambino, infine, significa farsene carico ed iniziare, con coraggio, un nuovo percorso. Sì, la salvezza viene da quel Bambino e comincia ogni volta dai più piccoli”.