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Dal Sud Sudan il vescovo Christian Carlassarer racconta l’attesa per papa Francesco

Il ricordo del vescovo Cesare Mazzolari

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Papa Francesco, l’arcivescovo anglicano di Canterbury Justin Welby, leader della Comunione anglicana mondiale, ed il pastore Iain Greenshields, moderatore dell’Assemblea generale della Chiesa di Scozia, sono attesi a Juba, la capitale del Sud Sudan, dal 3 al 5 febbraio in un viaggio apostolico rinviato nello scorso luglio per i dolori al ginocchio del papa con il logo ‘Prego perché tutti siano una sola cosa’, come ha auspicato mons. Hubertus van Megen, rappresentante del papa in Sud Sudan e nunzio apostolico del paese dell’Africa centro-orientale:

“Per il Sud Sudan si aprirà un nuovo cammino di speranza perché il Santo Padre verrà a darci coraggio e a portarci la pace che stavamo aspettando… Dobbiamo pregare per questo incontro che aspettiamo da tanto tempo cui obiettivo è portare aiuto al Paese… La visita vuole confermare tutto l’impegno e la volontà della Chiesa cattolica nel portare e sostenere la pace in questo luogo”. Il Sud Sudan ha raggiunto l’indipendenza nel 2011, ma la guerra civile è scoppiata appena due anni dopo la libertà. Si stima che circa 400.000 persone siano morte nel conflitto. Sebbene un accordo di pace del 2018 abbia posto fine alla maggior parte dei combattimenti, la gente comune soffre ancora per la violenza e la fame.

Christian Carlassare, vescovo di Rumbek come successore di mons. Cesare Mazzolari e presidente della fondazione ‘Caesar’, abbiamo chiesto di raccontarci l’attesa della gente per questo viaggio del papa in Sud Sudan: “Le attese delle persone che hanno vissuto per molti anni in un contesto di insicurezza e di conflitto come i Sud Sudanesi possono sembrare banali a tanti. Ma così non sono perché nella loro semplicità sanno leggere i segni di grazia negli eventi più semplici trovando sempre speranza. Molti si sentono oggi dimenticati o abbandonati dalla comunità internazionale: un po' per il senso di colpa di non essere riusciti a mantenere la pace e dare stabilità al paese, ma anche per il fatto che l’attenzione mondiale sposta lo sguardo molto rapidamente prestando attenzione a quelle realtà che vengono evidenziate dai media e dove ci sono interessi economici più importanti. Quindi da un lato molta gente attende la benedizione del papa e accolgono con grande devozione questa sua attenzione verso le periferie, gli ultimi ed emarginati, i conflitti dimenticati. Dall’altro lato, la consapevolezza che gli occhi del mondo si spostano laddove il papa va e quindi la speranza che la comunità internazionale sia più sensibile e aperta nel sostenere le istituzioni nel processo di pace, e anche più generosa nel far fronte all’emergenza alimentare dovuta all’insicurezza, al conflitto, alle conseguenze del cambiamento climatico e s una situazione economica molto fragile”.

Il motto del viaggio è ‘Prego perché tutti siano una sola cosa’: come sarà possibile la sua realizzazione?

“Il Sud Sudan ha ottenuto l’indipendenza dal Sudan nel 2011. E la Chiesa aveva richiamato l’importanza di formare un popolo da genti di diverse tribù, lingue e tradizioni.  Questo è un compito complesso che chiede tempo e l’impegno di tutti. Il conflitto cominciato nel dicembre del 2013 ha rappresentato il fallimento più completo di questo proposito, poiché cominciato da divergenze politiche ha preso poi colorazioni etniche e disseminato rancore. I vari accordi di pace si sono tutti dimostrati abbastanza fragili e non sono riusciti a sciogliere i nodi. È chiaro a tutti che la divisione è un vicolo cieco. Solo l’unità è una strada percorribile che si apre a un futuro migliore. Al momento il Sud Sudan ha un governo di transizione e di unità nazionale. Nonostante le divergenze e la presenza di gruppi dissenzienti, si incoraggia il dialogo e un lavoro inclusivo che non escluda nessuno. Il motto scelto dal papa richiama a tutto questo: unità politica, sociale, antropologica e, perché no, anche di fede tramite una visita ecumenica, la prima nel suo genere. Una unità di fede (ortodossia) che diventa anche ortoprassi di carità e fraternità”. 

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In quale modo è possibile la riconciliazione?

“La riconciliazione e la pace devono essere integrali e non solo riguardare uno degli aspetti della vita umana e sociale. Non si può costruire una società riconciliata e pacifica, se non ci siamo riconciliati con noi stessi e fatto pace dentro i nostri cuori. Allo stesso tempo non è sufficiente avere il cuore in pace, anzi, non si può avere il cuore in pace davanti alle tante ingiustizie che si compiono nel mondo e che probabilmente continueranno a riproporsi. Sant’Agostino ha detto bene che la speranza ha due figli: la rabbia e il coraggio. La rabbia nel vedere le cose come vanno e il coraggio di cambiarle. Questo coraggio non si traduce in lotta contro il male, ma in assumere il peso del male sulle proprie spalle e portarlo lungo un irto cammino di comunione con tutte le vittime e di trasformazione e umanizzazione del mondo”. 

Lei ha proposto percorsi di riconciliazione: quanto è percorribile tale strada?

“E’ la via stretta. Il mondo conosce altre vie basti pensare alla nota ‘pace romana’. Anche qui in Sud Sudan governo e opposizione hanno firmato un accordo di pace che ha marcato una tregua dal conflitto e la speranza in una tranquillità possibile, se ancora non è possibile raggiungere le grandi parole declamate nell’inno nazionale: giustizia, libertà e prosperità. A livello politico ci sono ancora opposizioni al governo di unità nazionale. Ci sono gruppi armati che rivendicano più potere e più accesso alle risorse. Il tessuto sociale del paese è ancora molto frantumato, dove l’etnia di appartenenza pesa molto. Ci sono pregiudizi e rancore. Un terzo della popolazione vive nell’insicurezza e sono sfollati dai loro territori o rifugiati nei paesi limitrofi. Nonostante l’accordo al governo non sono ancora ritornati nelle loro case, e le attività economiche stentano a partire. I cambiamenti climatici affliggono la popolazione. Nel mezzo di tanta confusione, vedo una comunità in cammino lungo la via stretta che ha capito che solo una comunità riconciliata e solidale può promuovere vita”. 

Quale ruolo svolge la Chiesa nella lotta alla schiavitù?

“Ci sono vecchie e nuove schiavitù. Ci troviamo a riconoscere la schiavitù di una cultura fossilizzata che non cambia e non offre nuove risposte alle sfide moderne. La schiavitù di una donna a cui non viene permesso di emanciparsi, pena l’esclusione. La schiavitù di una famiglia che ancora è lontana dal riconoscere in pieno il suo valore nella società. La schiavitù di bambine considerate una risorsa economica quando garantiscono un introito importante con la dote per il loro matrimonio. La schiavitù di una visione della vita e del destino che non incoraggia a impegnarsi contro ciò che ferisce la nostra umanità, prendendosi cura delle persone (salute) e dell’ambiente circostante. La schiavitù del vince il più forte che favorisce il cameratismo e la violenza facile. Di fronte a queste schiavitù c’è bisogno di una conversione profonda che nasce dalla formazione integrale così come è espressa anche da papa Francesco nel patto educativo globale. Istruzione non è solo conoscere materie, ma soprattutto conoscere sé stessi, l’altro come fratello, l’ambiente come casa comune e il Trascendente”. 

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Quale eredità ha lasciato al popolo sud sudanese mons. Cesare Mazzolari?

“Bisogna riconoscere che mons. Cesare Mazzolari ha fatto rinascere una diocesi che era morta a causa del conflitto. L’ha nutrita ed educata fino a farla diventare un modello di chiesa per il Sud Sudan, poggiata su cinque pilastri: evangelizzazione, istruzione, cura delle povertà e promozione umana, oltre che al ministero di giustizia e pace. Molti Sud Sudanesi riconoscono in padre Cesare anche un padre fondatore della nuova nazione avendo promosso la dignità umana e promosso l’istruzione di quelli che ora sono in gran parte i leaders di questo giovane paese”.