La dichiarazione condannava ogni forma di violenza commessa in nome della religione, nonché la ferma opposizione a tutte le forme di potere politico basate sulla discriminazione tra musulmani e non musulmani. Il tema della cittadinanza era cruciale. In pratica, la conferenza sottolineava che lo Stato dovesse essere indipendente dalla legge religiosa islamica, e il primato del principio di cittadinanza. Ogni persona doveva avere piena eguaglianza di diritti, senza considerare l’appartenenza religiosa. Era, in pratica, il rovesciamento del concetto di “umma”, considerata da sempre la comunità di credenti islamici, e che invece doveva essere considerata su un principio geografico, più che etnico o religioso.
La Conferenza Mondiale della Pace arriva dopo questa conferenza, e già si sta pensando ad altri eventi del genere, con base non in Egitto, per dare seguito a questo lavoro. Antoine Courban, un noto sociologo libanese che ha partecipato alla conferenza di febbraio, ha sottolineato in una conversazione con ACI Stampa che c’è una “corrente moderata nel mondo islamico”.
E qui si torna al tema della crisi tutta interna all’Islam, che ha poi ricadute drammatiche in Occidente. Courban sottolinea che “moderazione è Mediterraneo”, enfatizzando così il ruolo chiave del Mediterraneo nel creare ponti.
Perché al Azhar si sta impegnando in questo movimento di Islam moderato? È una domanda da porsi senza pregiudizi. Anche perché Papa Francesco ha deciso di dare fiducia al movimento, e lo ha fatto anche il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, che sarà presente alla conferenza della pace - e sarà la quinta volta che lui e Papa Francesco saranno insieme in un evento pubblico, dopo Gerusalemme, la preghiera per la Pace nei Giardini Vaticani, il viaggio a Lesbos e l’incontro interreligioso di Assisi.
Ma c’è anche chi fa notare che, nonostante l’applauso tributato da al Azhar ad al Sisi quando questi aveva chiesto una “rivoluzione interna” dell’Islam, i libri su cui si formano i nuovi imam in al Azhar sono rimasti gli stessi, e così il curriculum di studi.
Di certo, è importante guardare al mondo sunnita per creare ponti di dialogo, specialmente per quanto sta accadendo in Medio Oriente, con le violenze dell’ISIS.
Spiega padre Samir: “L’acronimo DAESH arabo è ben tradotto con ISIS, Stato Islamico dell’Iraq e della Siria. E ogni parola ha un peso e un significato in questo acronimo, così come il nome che si è voluto dare il leader di questo movimento, Abu Bakr al Baghdadi, ovvero Abu Bakr come il primo califfo dopo Maometto, e al Baghdadi, di Baghdad. L’ISIS vuole rifare il califfato (un titolo caduto con la rivoluzione di Ataturk nel 1923), e in particolare il Califfato di Baghdad, che c’è stato dal 750 al 1258. E l’acronimo parla chiaramente di Iraq e Siria, perché in questi due Paesi il governo è sciita, mentre in Egitto, in Giordania, anche altrove, è sunnita. Si tratta di una guerra organizzata dai sunniti contro gli sciiti, per rovesciarli. E gli sciiti sono essenzialmente l’Iran (80 per cento), gli Hezbollah in Libano, gli Alawiti in Siria. Anche gli attacchi nello Yemen derivano dal fatto che nello Yemen ci sono il 55 per cento di sciiti”.
È anche per questo che il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, dopo aver con forza condannato il califfato in una dichiarazione di agosto del 2014, ha lavorato con forza per ripristinare il contatto con al Azhar che si era chiuso nel 2010, e lo ha fatto anche con una seconda dichiarazione ad aprile 2015 che sottolineava come il dialogo non andasse interrotto, ma portato avanti con più forza.
Ora è il momento di raccogliere i frutti di questo dialogo. Non sarà un percorso semplice.
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