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E Giovanni Paolo II disse , il professor Crucitti mi ha salvato la vita

Pierfilippo Crucitti ricorda i legami tra Giovanni Paolo II e suo padre chirurgo che operò il Papa

Giovanni Paolo II con Francesco e Pierfilippo Crucitti |  | Famiglia Crucitti
Giovanni Paolo II con Francesco e Pierfilippo Crucitti | | Famiglia Crucitti
Giovanni Paolo II con Francesco Crucitti all'uscita del ricovero al Gemelli  |  | pd
Giovanni Paolo II con Francesco Crucitti all'uscita del ricovero al Gemelli | | pd

Francesco Crucitti è nato in una famiglia semplice (suo padre era un ferroviere) di Reggio Calabria, nell’estremo sud d’Italia. Fu un ragazzo brillante che a 16 anni conseguì la maturità scientifica. In quei tempi le famiglie non si potevano permettere di mandare a studiare tutti i figli. Allora fu scelto Francesco, figlio maggiore: partì per Bologna per studiare medicina. Si laureò all’età di 21 anni e iniziò a lavorare a Padova. Si specializzò in chirurgia generale, chirurgia del toracica e urologia.

 Ma lavorando nel Nord d’Italia gli pesava la lontananza dalla sua famiglia, allora, quando a Roma viene aperto il Policlinico Agostino Gemelli  presso l’Università Cattolica di Sacro Cuore, nel 1967 si trasferisce con la famiglia (moglie e due figli: Antonio e Roberta; il terzo, Pierfilippo nascerà a Roma nel 1968) nella capitale per avvicinarsi a Reggio Calabria. Tutto il resto della sua carriera professionale sarà legato al Policlinico Gemelli. E proprio lì che il Professor Crucitti opererà Giovanni Paolo II dopo l’attentato sulla piazza San Pietro e il suo nome sarà legato al Pontefice polacco. 

In occasione dell’anniversario dell’attentato ho incontrato Pierfilippo Crucitti, figlio di Francesco, anche lui medico chirurgo come il fratello Antonio, per ricordare questo drammatico fatto e per parlare dei legami tra Giovanni Paolo II e il medico che operò il Papa per ben quattro volte (attentato, chiusura della stomia, polipo del colon e appendicectomia).

Dottore, nel 1978 fu eletto a Vescovo di Roma un cardinale straniero. A casa vostra si parlava di questo Papa venuto della Polonia? 

 Seguivamo il conclave alla tv e quando fu pronunciato il nome di Karol Wojtyla non capivamo di chi si trattasse e da quale paese venisse ma a tutti è rimasta in mente la sua frase: “Quando sbaglio, mi corriggerete”.  Giovanni Paolo II era il Papa che si è fatto voler bene ed apprezzare subito da tutti. 

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Il 13 maggio del quarto anno del pontificato è passato alla storia come il giorno dell’attentato al Papa. Cosa si ricorda di quel terribile giorno?  

Nel 1981 avevo 13 anni. Nel pomeriggio del 13 maggio giocavo a tennis. Mi arrivò la telefonata di mia madre che in quel momento era sola a casa che mi disse: “Torna a casa!”. Era spaventata perché sapeva già dell’attentato. Sono rientrato a casa e insieme con mia mamma e mia sorella e mio fratello abbiamo seguito gli eventi di quella giornata alla televisione. Papà stava facendo attività ambulatoriale presso la Casa di Cura Pio XI e mentre visitava la Suora che seguiva l’ambulatorio entrò senza neanche bussare nella stanza dove lui stava visitando e lo invitò a lasciare tutto e correre verso il Policlinico Gemelli dove stavano trasportando il Papa ferito all’addome dalla pistola di Ali Agca. Salito in macchina si diresse a tutta velocità verso il Gemelli scortato per parte del tragitto dalle volanti della polizia. La notte, dopo le 23 abbiamo visto la prima intervista di papà che parlava della conclusione dell’operazione.   

E voi quando vi siete sentiti?

La prima, brevissima telefonata è arrivata verso l’una di notte. Papà ci voleva tranquillizzare, ci disse che tutto era andato bene e ci informò che sarebbe rimasto in ospedale. E effettivamente rimase al Policlinico altri tre giorni, se mi ricordo bene.  

Suo padre cosa raccontò ai familiari dell’intervento, una volta tornato a casa?

Subito non ci disse troppo, ma negli anni successivi ci raccontava dei dettegli sempre nuovi. Ci raccontò che all’inizio la situazione era critica a causa dell’importante emorragia: il proiettile lesionò l’arteria che è l’arteria mesenterica inferiore che nasce direttamente dall’aorta e irrora il colon, fortunatamente senza lesionare l’aorta stessa. Se avesse lesionato l’aorta il Papa non avrebbe avuto il tempo di arrivare al Policlinico. Invece sì, aveva perso molto sangue, ma non tanto per causare il decesso.    

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Ci disse anche che mentre lui operava nella sala operatoria si affacciavano delle persone. Prima di tutto don Stanislao che chiedeva quale fosse la situazione, mons. Monduzzi ed altre persone dell’entourage del Papa. In un certo momento mio padre sentì un particolare odore di tabacco, si giro per capire chi fosse la persona che si affacciava: era il presidente Pertini. 

Chi è diventato per suo padre Giovanni Paolo II?

Con papà si creò un rapporto molto particolare. Al Papa fu confezionata una stomia, un ano artificiale per deviare le feci dal colon. Dopo circa un mese bisognava fare un altro intervento per chiudere la stomia. In quei tempi mio padre non era il medico di più alto grado o più anziano. Per di più arrivavano da tutto il mondo le proposte di famosi chirurghi che volevano operare il Papa. Al Policlinico si prese la decisione che l’operazione sarebbe stata effettuata da un chirurgo anziano. Allora mio padre comunicò questa decisione a Giovanni Paolo II che rispose: “Da quando in qua non è il paziente a scegliere il dottore che deve operare?” E il Papa decise di essere operato per la seconda volta da lui perché si era creato già allora il clima di fiducia reciproca. Ogni volta quando si incontravano si abbracciavano (il Papa non gli permetteva di bacciargli la mano), ridevano, si sentiva un clima di complicità.    

Allora suo padre devenne il “chirurgo del Papa”? 

Sì, per questo motivo operò Giovanni Paolo II altre due volte: nel 1992 a causa di un polipo cancerizzato del colon discendente e nel 1996 eseguì un'appendicectomia. 

Allora il Prof. Francesco Crucitti è stato il primo medico nella storia ad aver operato quattro volte un Papa. Ma suo padre in un’intervista disse di Giovanni Paolo: “E’ un ‘cattivo’ paziente”. Come mai?

Sa, il medico si aspetta dal paziente di riguardarsi, di seguire tutte le raccomandazioni, di fare la riabilitazione, di essere paziente appunto. Invece il Papa metteva al primo posto i suoi impegni e non la sua salute, perciò mio padre lo chiamò “cattivo” paziente. 

Ma in certo momento suo padre si ammalò e divenne lui stesso paziente. Il Papa s’interessava della sua malattia?  

Nel 1990 mio padre scoprì di essere affetto da un tumore alla prostata e decidemmo, per motivi di riservatezza, di fare l’intervento negli Stati Uniti, a Baltimora. Io sono andato con lui in America e mi ricordo che la sera prima dell’intervento mentre eravamo nella stanza dell’ospedale squillò il telefono. Lui mi chiese di rispondere, perché non parlava bene l’inglese, ma alla fine prese la cornetta e cominciò a parlare. Alla fine, si fece il segno della croce. Quando fini, gli chiesi chi fosse al telefono. Mi rispose: “Il Papa”. Fu Giovanni Paolo II a chiamarlo prima dell’intervento per dagli la benedizione e questo mostra la sensibilità del Papa verso le persone che gli erano vicine. 

Purtroppo, malgrado l’intervento la malattia progrediva…

Si, l’ultima volta mio padre operò il Papa sorretto da un busto. Due anni dopo, il 26 agosto 1998 morì. Gli ultimi mesi di vita noi tenevamo e curavamo mio padre a casa, io e mio fratello siamo medici. E in quel periodo ogni giorno arrivava la telefonata del segretario del Papa, don Stanislao. La mattina quando morì, la prima persona che si presentò a casa nostra fu un gendarme. Ci fece le condoglianze e pregò davanti alla salma ma subito dopo voleva vedere tutta la casa. Mi sembrava una cosa strana, ma lui mi disse: “Il Santo Padre sta arrivando”. 

Il Papa ad agosto soggiornava a Castel Gandolfo…

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Si, ma quel giorno venne a Roma per l’udienza e per salutare mio padre. Anni dopo Navarro Valls mi raccontò che lui ed altre persone volevano dissuadere il Papa per non cerare un precedente, cioè la visita del Pontefice ad una persona deceduta che non era un ecclesiastico. Ma Giovanni Paolo II rispose: “Io devo andare perché quest’uomo mi ha salvato la vita”, così mi ha riferito Navarro Valls. E il Papa arrivò dopo le 10. La sua macchina si è fermata davanti a casa nostra in via della Farnesina e si è trovato di fronte a due signore che tornavano dalla spesa con le buste. Io e mio fratello, tenendo il Papa a braccetto, abbiamo fatto le scale e siamo entrati nell’ascensore. All’ingresso dell’appartamento Giovanni Paolo II ha abbracciato mia madre dicendo “Grazie, grazie”. Lo faceva ogni volta incontrava la mamma.   

Quest’anno, il 13 maggio si ricorda il 40° anniversario dell’attentato al Papa. Quali sentimenti rievoca in Lei questo drammatico evento che ha legato Giovanni Paolo II a suo padre?

La prima riflessione riguarda l’attentato stesso che voleva fermare la missione di cambiare la Chiesa e il mondo intrapreso da questo Papa giovane e dinamico. Fortunatamente il tentativo di fermarlo fallì e Giovanni Paolo II poteva guidare la Chiesa altri 25 anni introducendoLa nel terzo millennio. Il Papa è stato una figura centrale nei cambiamenti epocali di quegli anni. 

Il secondo pensiero è il fatto come questo evento ha cambiato la storia della nostra famiglia. Prima di tutto il Papa ci ha aiutato a capire quanto importante per lui era l’amicizia con mio padre. Il fatto che un grande uomo come Giovanni Paolo II abbia voluto unirsi in preghiera con noi quel giorno è stato un grande conforto e ci ha lasciato un ricordo indelebile di questo Pontefice. 

L'intervista in polacco è stata pubblicata nel settimanale "Niedziela"