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Georgia, 30 anni dal massacro di Tbilisi che unì la nazione e le Chiese

Massacro di Tbilisi | La targa delle vittime del massacro di Tbilisi del 9 aprile 1989 | Wikimedia Commons Massacro di Tbilisi | La targa delle vittime del massacro di Tbilisi del 9 aprile 1989 | Wikimedia Commons

Tra i manifestanti c’era il Patriarca Ilia. Tra quelli che erano accorsi c’erano studenti, giovani, persone comuni di ogni religione. E, dopo gli eventi, ci fu anche una Messa nella cattedrale cattolica dei Santi Pietro e Paolo, l’unica chiesa cattolica a rimanere aperta a Tbilisi durante tutto il regime comunista. Il massacro di Tbilisi, avvenuto 30 anni fa, è il momento in cui la Georgia ha creato la sua identità nazionale.

Ed è stata una identità trasversale, non intaccata nemmeno dalle differenze di fede. Una identità ecumenica. E non è poco. I rapporti tra cattolici e ortodossi sono tuttora difficili. Durante il viaggio di Papa Francesco in Georgia ad ottobre 2016 , nessuno del clero ortodosso partecipò alla Messa, e persino il dialogo ecumenico veniva considerato problematico. Per costruire una chiesa cattolica a Rustavi ci sono voluti anni e anche la dimostrazione di una Porta Santa aperta in un giardino e poi portata davanti a Papa Francesco, che l’ha oltrepassata prima della Messa. Eppure tutti, in quella giornata, si sentirono uniti.

Quel 9 aprile 1989, si era assembrata una manifestazione pacifica in via Rustaveli, davanti il Parlamento. Le truppe sovietiche la dispersero con la forza, causando la morte di 21 persone e centinaia di feriti. Quell’evento viene oggi ricordato come il “massacro di Tbilisi”.

Il patriarca della Chiesa Ortodossa Georgiana Ilia II, come detto, era tra quei manifestanti. Quando vide che la situazione stava peggiorando, esortò i partecipanti a ritirarsi nella chiesa di Kashveti per evitare spargimenti di sangue. Anche quello sforzo fu inutile.

Ma quella manifestazione rappresentò una scintilla. L’ambasciatore Archil Gegeshidze, che oggi è direttore esecutivo della fondazione Levan Mikeladze, ha descritto quell’evento come “un vero shock e un momento di verità che ha avuto conseguenze per la Georgia e oltre”.

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I fatti del 9 aprile, sottolinea, non rappresentarono la prima volta di una manifestazione pubblica di dissidenza al regime sovietica, eppure “hanno lasciato un profondo segno sul destino della Georgia di oggi e in generale su una più vasta area dello spazio post-sovietico”.

Si è trattato di eventi – prosegue Gegeshidze – che hanno avuto una influenza “nel formare l’identità georgiana”, dando fiato al nazionalismo georgiano che era rifiorito negli Anni Ottanta nonostante la repressione sovietica, fino ad “acquisire un significato politico con la nozione di libertà nazionale”:

Era “un risveglio nazionale”, che era iniziato “specialmente tra i giovani e parte dell’intellighentsia” e che progredì rapidamente.

Anche perché la repressione fu oggetto del lavoro di una commissione, la commissione Sobchak, che riportò dei fatti in nome della glasnost che era la linea politica dell’allora segretario generale del Partito Comunista Sovietico Michail Gorbachev.

Si creò anche una reazione nell’esercito, perché, dopo che la commissione rivelò cosa era successo, nessun militare sovietico accettò di eseguire ordini senza che fossero chiare le responsabilità della catena di comando: è la cosidetta sindrome di Tbilisi.

Tra i giovani scesi in piazza, c’era anche Giorghi Tzhomelidze, che oggi è segretario del vescovo Giuseppe Pasotto, amministratore apostolico del Caucaso, e allora era un giovane studente dell’ultimo anno delle scuole superiori.

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Tzhomelidze sottolinea “l’entusiasmo che ha caratterizzato l’inizio della lotta per la conquista della libertà”. Gli animi si scaldarono, racconta, con la decisione dell’esercito sovietico di base in Azerbaijan di usare come poligono di tiro il monastero di David Gareji, e fu lì che “gli studenti dell’università statale presero spunto per cominciare le proteste”.

Tzhomelidze ricorda che le manifestazioni avevano come slogan “libertà e indipendenza” e “tutto il Paese s sentì subito unito da quell’unico scopo che si chiamava libertà”.

Fino al 9 aprile, il giorno “che ha segnato la storia di questo Paese e anche di altri, dato che come una reazione a catena sono iniziate poi anche in altri Paesi le dimostrazioni per chiedere indipendenza e libertà”.

Il 9 aprile oggi è ricordato come Giorno di Unità Nazionale, perché il 31 marzo 1991 i georgiani votarono in un referendum per l'indipendenza dall'Unione Sovietica, e fu proprio il 9 aprile 1991, nel secondo anniversario della tragedia, il Consiglio Supremo della Repubblica di Georgia proclamò la sovranità dello Stato e l'indipendenza dall'Unione Sovietica a seguito di quel referendum.

Giorno doppiamente significativo, dunque. Ed è un giorno che Tzhomelidze porta alle memoria “con gioia e dolore”. Un giorno preparato da quando, “qualche giorno prima del 9 aprile, l’esercito sovietico aveva voluto dimostrare la sua forza mostrando al centro della città i carri armati e facendo sfrecciare a bassa quota nel cielo, sopra i manifestanti, gli aerei militari”.

Tzhomelidze però ha bene in mente “la mancanza di paura nei volti delle persone”, e viale Rustaveli divenne “il centro del campo di battaglia”, e la notte “tutte le vie che davano al Viale Rustaveli venivano chiuse dai carri armati mentre i soldati russi, con manganelli e piccoli badili, incominciarono a far sfollare la gente picchiando con ferocia. Solo in quella notte, verso l’alba del 9 aprile, morirono 21 persone e rimasero sulla strada numerosi feriti. Tra i morti c’erano due mie compagne di scuola di 16 anni; Nino e Natia. Due care ragazze martiri per la libertà”.

Ma nonostante la trageda, il giorno dopo “ripresero le dimostrazioni pacifiche sotto forma di solidarietà e di preghiera verso i morti”, e viale Rustaveli si “rianimò e si riempì di fiori portati dalla gente in segno di affetto e di lutto”, mentre “molta gente s radunava attorno alle due chiese ortodosse ancora funzionanti (le altre, durante il periodo sovietico, erano state chiuse) per pregare i defunti”.

Ma anche la chiesa dei Santi Pietro e Paolo – ricorda Tzhomelidze – “si era riempita, ed era diventata centro di preghiera non solo per i cattolici”.

Sono tutte queste memorie che si intrecciano, nel trentesimo anniversario del massacro di Tbilisi. Un momento in cui tutti si sentirono uniti, cattolici e ortodossi, mettendo in pratica quell’ecumenismo del sangue di cui parla sempre Papa Francesco.

 

 

 

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