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I difficili giorni dei cattolici in Afghanistan

I gesuiti hanno sospeso la loro missione, le suore di Madre Teresa anche, i Barnabiti sono in attesa. L’apprensione dei cattolici in Afghanistan

Kabul | Due bambini all'aeroporto di Kabul | Twitter Kabul | Due bambini all'aeroporto di Kabul | Twitter

La speranza è che i talebani, alla fine, cercando l’aiuto delle Ong, permettano anche alle Ong cattoliche di continuare a lavorare sul territorio. Ma è una speranza, flebile, che si attacca alle dichiarazioni aperturiste fatte nei giorni prima della conquista, e che non è detto venga mantenuta. Fatto sta che i cristiani in Afghanistan si trincerano in un prudente silenzio. Chiedono i pregare. Alcuni articoli che parlavano di loro sono persino stati rimossi dai siti internet per evitare di metterne a rischio la sicurezza.

Ed è per questo che non si possono dare dettagli. Anche per questo, probabilmente, che Papa Francesco non ha proferito parola sul dramma che si sta vivendo in Afghanistan, né all’udienza generale, né all’Angelus del 22 agosto. Prudenza necessaria, anche considerando che l’Afghanistan è in quel minuscolo novero di Paesi che non hanno alcun rapporto diplomatico con la Santa Sede.

Certo è che la missione sui iuris dell’Afghanistan si trova sola, isolata in una ambasciata italiana ora evacuata, mentre sono pochi i governi occidentali che puntano ad un vero dialogo con i nuovi dominatori del Paese. La comunità cattolica è ritornata nel Paese quando fu permesso di costruire una cappella, e fu permesso di costruirla all’interno dell’ambasciata italiana. Era una novità, perché con l’Impero Ottomano i cristiani erano scomparsi da quell’area. Eppure, quando nel 1919 l’Italia riconosce tra le prime la Repubblica di Afghanistan, questa vuole ricambiare il favore. E l’Italia, in cambio, non chiede privilegi commerciali, accordi particolari, vantaggi geostrategici sulla regione, ma la costruzione di un luogo di culto.

Nel 1921, nel trattato di amicizia itatlo-afghano, viene dunque contemplata la possibilità di costruire una chiesa. E questa fu costruita, e nel 1931 Pio XI affidò quella chiesa ai padri Barnabiti, che si sono alternai a Kabul da allora. Il responsabile della missio sui iuris, oggi, è padre Giovanni Scalese, il quale alla fine ha dato solo alcune, brevi, dichiarazioni a Vatican News, chiedendo semplicemente di pregare.

Giovanni Scalese è il secondo responsabile della missio sui iuris stabilita da Giovanni Paolo II, che aveva raccolto così il clima di speranza di quella stagione. L’idea era quella di stabilire una comunità cattolica ufficiale, ma i governi afghani, di qualunque colore fossero, hanno sempre accettato solo un luogo di culto cattolico, come riferimento degli stranieri.

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Eppure, un gruppo di sacerdoti e suore sono riusciti ad entrare come operatori umanitari. È il caso delle Missionarie della Carità, ed è il caso dei Gesuiti, appunto, che costituiscono una sorta di missio sui iuris nella missione stessa. Da qui, la flebile speranza che continui ad essere consentito l’accesso alle Ong di ispirazione cattolica.

Attualmente, sono due i gesuiti in missione a Kabul. Sono entrambi indiani. Hanno dovuto sospendere le attività della loro missione, che sono soprattutto di ambito educativo.

Uno dei due gesuiti ha scritto che “tutti sono rintanati nelle case e nelle comunità. I voli sono cancellati e dipendiamo dagli accordi tra gli organismi dell’Onu e i taleban”.

Anche il destino della scuola per bambini con disabilità psichica nata dallo sforzo dell’associazione Pbk-Pro Bambini di Kabul, fondata da don Giancarlo Pravettoni, padre Guanelliano.

Si lavora per il rimpatrio di alcuni, ma i missionari vorrebbero restare. Servono una popolazione di cristiani nascosta, che non è mai uscita allo scoperto, ma che ora rappresenta uno dei principali obiettivi dei talebani, che – secondo alcuni – cercano casa per casa.