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La Chiesa dov’è? Una collegialità da riscoprire

La riflessione del Cardinale Fernando Filoni Gran Maestro dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme

Il Cardinale Fernando Filoni  |  | Daniel Ibanez/ Aci Group Il Cardinale Fernando Filoni | | Daniel Ibanez/ Aci Group

Oggi, mentre si ha la sensazione di un ripensamento strategico internazionale da parte dei grandi Paesi o aree geografiche con tattiche o che si rafforzano, o cercano soluzioni per le crisi che li coinvolgono - ad esempio  la Cina di Xi Jinping rafforza il proprio potere collocandosi al centro dello scacchiere, la questione di Taiwan in primis, la Russia di Putin tra effetti disastrosi non sa come uscire dalla guerra in Ucraina, Europa e USA rafforzano l’Alleanza Atlantica per la difesa dei tradizionali valori democratici, l’Africa è quasi abbandonata ai suoi grandi mali (divisioni tribali, corruzione, miopie politiche, conflitti) benché ora oggetto di mire per le sue riserve energetiche, e il mondo arabo continua condizionato dalla millenaria controversia tra sunniti e sciiti-iraniani - la Chiesa dov’è?  È veramente irrilevante, come qualcuno pensa e scrive?

C’è in verità un «Popolo di Dio» nelle municipalità, nelle città, nei villaggi che percepisce tutte le drammatiche crisi sociali e morali (la fenomenologia è amplissima: povertà, droga, omicidi, sfruttamento del lavoro, disoccupazione, violenze domestiche, ecc.) e che pure si domanda: La Chiesa dov’è?  Le parrocchie, i movimenti ecclesiali, le opere socio-caritative, l’azione con le famiglie, l’educazione, certo tutto è là, ma la domanda non è oziosa.

In un mondo che cambia rapidamente, è naturale domandarsi se la Chiesa, in questa realtà camaleontica e convulsa della geopolitica, compreso finanziaria, abbia un compito.  È pertanto fondamentale poter leggere gli avvenimenti nella loro macro-evidenza, senza la pretesa di scomodare qui la natura misterica e trascendente di essa, evitando al tempo stesso di cadere sia in una lettura semplicemente sociologica, sia nella seduzione di un certo fatalismo; ma pure di barcamenarsi tra gli scogli di realtà pragmaticamente e apparentemente indifferenti.  

Certamente la missione della Chiesa non è una missione di competizione, benché il soggetto verso cui essa manifesta il proprio interesse è il medesimo a cui è orientata la geopolitica internazionale: quegli stessi uomini e donne, quei popoli ai quali tutti dichiarano di voler bene e di volerne favorire il progresso.  La missione della Chiesa non è competitiva e non andrebbe mai letta come si trattasse di un agonismo elettorale con percentuali che i media spesso si contendono per esigenze giornalistiche, se non ideologiche.  Gli amanti delle statistiche, delle scommesse e delle previsioni lo fanno, e di quando in quando sciorinano i loro dati sulla frequenza religiosa dei fedeli, sulla vita sacramentale o delle liturgie, sulle vocazioni, ecc.  La sua, quella della Chiesa, è una missione morale, spirituale, ma non avulsa da questo mondo, cioè profondamente umana e che vive nelle e con le crisi dell’umanità.  E il Papa non è a capo di una «potenza», sebbene gli sia riconosciuta una rilevanza anche internazionale; neppure la vita della Chiesa è traducibile in soldoni.   

Da oltre un secolo, l’interazione della Chiesa con il mondo è molto cambiata.  A livello istituzionale non c’è più un papato che tratti con gli imperi (francese, austro-ungarico, britannico, russo, cinese, ottomano) e con neo-nazioni emergenti; nemmeno c’è un episcopato che si occupi semplicemente della vita religiosa e umanitaria (già tanto benemerita) delle proprie popolazioni.   

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Il 16 aprile 1966 fu una data significativa; è una data post-conciliare, legata a quell’evento che era appena terminato; ma con la data conviene citarne anche il luogo, il Campidoglio, dove Paolo VI, con una storica visita, metteva definitivamente termine all’idea di una «supremazia» in derivazione dal temporalismo della Chiesa, già interrotto un secolo prima; egli amava pensarsi  servus servorum Dei (un titolo oggi relegato nell’Annuario Pontificio a titolo storico!) e, in ottemperanza alla Costituzione pastorale Gaudium et Spes (un documento nato veramente in assemblea conciliare), propugnava la vocazione e la missione in proiezione universale.  Non solo il papato, ma tutta la Chiesa, vescovi, religiosi, fedeli battezzati, insieme riacquistavano consapevolezza di sé e della propria vocazione cristologica. In Concilio si era completato uno sviluppo più comprensivo di tutte le realtà a partire dalla dignità, legata alla persona e alle sue libertà, le istituzioni non erano più al primo posto; le relazioni con il mondo, con le religioni non cristiane, con il mondo ebraico, l’ecumenismo stesso perdevano la ruggine depositata dalle negatività e, al tempo stesso, la missionarietà si apriva di prospettiva e veniva riformulata con una proposta rispettosa del mondo contemporaneo, luogo dell’inquietudine in ricerca di risposte; in modo splendido teologicamente parlando, il «Mistero di Dio»  veniva proposto in termini di conoscibilità, di «Evento» e di «Parola» nella persona di Gesù - essendo Cristo la luce delle genti (Lumen gentium cum sit Christus) - al quale la Chiesa ora si accostava con una liturgia di prossimità.

Effettivamente il ruolo morale e spirituale del Papa ne era uscito enormemente accresciuto, contando ancor più sull’esistenza capillare di una Chiesa ormai presente in tutti i continenti, con i lineamenti delle loro genti e con gerarchie e lingue autoctone; la stessa diplomazia pontificia, atipica (priva di interessi commerciali, finanziari, consolari, militari, ecc.), ne sarà più ecclesialmente orientata, propugnando l’alto insegnamento morale e spirituale della Chiesa (Sollicitudo omnium ecclesiarum, Lettera Apostolica del 24 giugno 1969).

Benedetto XVI ha recentemente scritto che - giovane ecclesiastico al Concilio, mentre allora si percepiva la necessità di riformulare la questione della natura e della missione della Chiesa, divenuta gradualmente sempre più evidente - si avvertiva con gioia la più ampia dimensione spirituale del concetto di Chiesa (cfr. Lettera per il Simposio dell’Università francescana di Steubenville/USA del 7 ottobre 2022); una valutazione che condivido in pieno.  Paolo VI aveva sviluppato il senso di quella identità, già da quando interrogava nel 1963 i Padri conciliari: Chiesa cosa dici di te stessa?  Giovanni Paolo II avrebbe mostrato poi ovunque la prossimità della Chiesa a tutte le genti, Benedetto XVI la sua relazione teologica con il mondo e Francesco la solidarietà missionaria.

La Chiesa inoltre usciva dalla tradizionale impostazione papa-vescovi, Chiesa universale-Chiesa diocesana, sviluppando forme intermedie di interazione ecclesiale, assai necessarie per accostarsi e conoscere il mondo e partecipare alle sue attese.  Accanto al «Sinodo dei vescovi», come luogo di esercizio della collegialità, istituito da Paolo VI il 15 settembre 1965 (una istituzione che “manifesta la sollecitudine del collegio episcopale per le necessità e per la comunione tra le Chiese” - Papa Francesco), presero definitivamente forma anche le «Conferenze episcopali» (nazionali, regionali e internazionali), che sebbene giuridicamente non si configurassero come strutture di potere intermedio tra il papa e i vescovi, per la loro agilità assumevano un ruolo rilevante da un punto di vista pastorale, di moderazione sociale e di riferimento nelle società odierne, tanto democratiche, quanto diverse. La tentazione in alcuni casi di impedirne la voce o di controllarla, mostrava l’autorevolezza con cui è stata guardata questa moderna istituzione di comunione ecclesiale.  Negli antichi come nei nuovi ‘imperi’ il tentativo di addomesticare le Conferenze episcopali è sempre all’opera.  Le Conferenze episcopali comunque, come strumenti di comunione e di sostegno reciproco tra i vescovi e con il papa, rappresentano un’evoluzione storicamente tra le più rilevanti della presenza della Chiesa nel mondo, essendosi poste tra le forme di giurisdizione personale (papa-vescovo) e quelle collegiali (concili-sinodi). Le Conferenze di per sé, per l’afflatus collegialis che sviluppano ed esprimono, sono utilissime nell’affrontare tematiche complesse e non riducibili ad opinioni personali, soprattutto quando si tratta di questioni pastorali e morali di ampio raggio, con implicanze serie e profonde relative a scelte e programmi di interesse per la collettività di cui sono parte.  Una democrazia non esclude il loro operare, ma gli ‘imperialismi’ cercano di limitarne la parola o l’azione. Una Conferenza episcopale, in verità, rispetto al singolo vescovo, è sempre maggiormente in grado di difendere i valori ecclesiali e umani a livello regionale o nazionale rispetto all’agire di un singolo vescovo; ma anche a volte rispetto alla Sede Apostolica stessa, trattandosi spesso di questioni interne ai singoli paesi e in aderenza al principio della sussidiarietà, secondo cui l’ente superiore non deve intervenire, ma può eventualmente sostenere l’azione. La sussidiarietà è stato uno degli elementi caratterizzanti la visione della Chiesa sulla società e fu il Papa Giovanni Paolo II a farvi riferimento e ad esplicitarne l’importanza.  Non a caso anche la costituzione apostolica Praedicate Evangelium (2022), sulla Curia romana e il suo servizio alla Chiesa nel mondo, chiede che mai si proceda senza avvalersi del consiglio e della valutazione delle istituzioni conferenziali.

C’è chi pensa già ad un Concilio Vaticano III; e le opinioni sono rispettabili.  Ma il Concilio Vaticano II sulla Chiesa nel mondo ha già esaurito la propria funzione?