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La Monaca di Monza morì in odore di santità? La storia di Marianna de Leyva: Prima parte

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Prima Parte: la nascita 

In un freddo mattino di gennaio, una suora conversa del convento milanese delle Penitenti di Santa Valeria, scriveva sul foglio maestro la seguente nota: "1650, adì 7 genaro, devono le sudette per alimenti douti alla sudetta sor Verginia Maria Leyva sino adì sudetto che è pasata a megliora vita", con queste scarne parole veniva annunciata la fine alla vita tormentata di suor Virginia, al secolo Marianna de Leyva, più conosciuta come la “Monaca di Monza”, la sciagurata suor Gertrude di manzoniana memoria. Un nome rimasto simbolo di ogni scelleratezza e di ogni sacrilegio. Eppure, questa donna, proprio verso la fine della vita, venne considerata, da chi la conosceva, una santa. Di lei si diceva addirittura che aveva visioni mistiche e lo stesso illustre cardinal Federico Borromeo, anche lui di manzoniana memoria e inizialmente suo grande accusatore, ebbe parole di grande stima per la monaca, tanto da invitarla ad aiutare le altre “consorelle dubbiose o provate dal demonio”. Della splendida donna di un tempo, della sua bellezza e della sua alterigia, non rimaneva ormai, alla fine della vita, che un corpo assai minuto e rattrappito da una artrosi deformante. Malgrado ciò, questo esile corpo sapeva infondere ancora rispetto e dignità a chiunque avesse avuto modo di incontrarla, come raccontano le testimonianza che ci sono rimaste di lei. Ma come è potuto accadere che una donna che discese fino in fondo la scala della perdizione potesse, poi, un giorno, morire santamente? Si dice che le vie del Signore siano infinite e misteriose e per Marianna de Leyva furono veramente tali fin dall’infanzia.

La vita
Non abbiamo una data precisa della sua nascita, ma da alcune affermazioni da lei stessa fatte, possiamo datarla intorno al 1576. Era figlia unica di una nobile e ricca famiglia. Il padre, Martino de Leyva, essendo secondogenito di Luigi, il più importante generale alla corte di Carlo V di Spagna, ebbe la vita segnata dalla carriera militare che, a quanto pare, abbracciò ben volentieri. Lo vediamo, infatti, partecipare con gesti di eroismo all’assedio di Granada, alla battaglia navale di Lepanto e a quella della Goletta: insomma un vero soldato, degno del nome dei Leyva. A ventisei anni, però, forse spinto dalla famiglia, cominciò finalmente a pensare al suo futuro e la fortuna gli fece incontrare una giovane vedova già madre di cinque figli. La donna aveva una dote tra tutte: era la figlia di Tommaso Marino, l’uomo più ricco di Milano e, all’epoca, tra gli uomini più potenti d’Europa. Inutile dire che da parte di Martino sbocciò subito l’amore per questa giovane vedova e, forse, anche per la dote, come commentarono le malelingue. Il nuovo matrimonio di Virginia venne allietato subito dalla nascita di Marianna, unica figlia della coppia, e la famiglia prese possesso di un’ala della residenza signorile del padre della sposa, appunto Palazzo Marino, che secoli dopo diverrà la sede del comune di Milano. Purtroppo la gioia famigliare durò poco più di un anno. Virginia morì improvvisamente di peste e per Marianna, ancora piccolissima, cominciò la dura battaglia della vita. Alla morte della moglie, Martino riprese la via delle armi e partecipò alla guerra delle Fiandre stando lontano da Milano per oltre tre anni. Marianna, nel frattempo, andò a vivere presso la zia materna e fu accudita da una fedele balia. Furono anche gli anni in cui si addensarono sulla piccola le nubi che ne condizioneranno il resto la vita. Poco prima di morire, sua madre Virginia volle redigere un testamento dividendo i suoi beni a metà tra la piccola Marianna e il figlio più grande, Marco Pio; al marito rimaneva l’usufrutto della dote fino alla maggiore età dei due giovani. Le altre figlie femmine furono di fatto escluse. Il testamento fu, ovviamente, impugnato dalle sorellastre e dopo una lunga e costosa causa si arrivò a un compromesso che il padre, Martino de Leyva, firmò immediatamente pur di non aver più a che fare con avvocati e tribunali. Morale della storia: la dote della piccola Marianna, pur rimanendo sempre sostanziosa, si prosciugò a meno della metà di ciò che le spettava e il rapporto con i fratellastri fu praticamente interrotto per sempre, lasciando Marianna più sola.

Secondo alcune interpretazioni, la bambina era destinata al chiostro, come accenna lo stesso Manzoni, cosa certo non rara in quei tempi, ma le cose non stanno proprio così. Da una lettera datata 26 giugno del 1586 (la bambina aveva solo dieci anni, ndr) il padre accenna a una eventuale proposta di matrimonio e si parla già di una dote di 7 mila ducati. Ciò che cambiò veramente il corso della sua vita, fu il nuovo matrimonio di suo padre celebrato a Valencia con una nobildonna del luogo che lo portò per sempre lontano da Milano, ma assai vicino alla corte di Spagna con incarichi di grande prestigio. Dalla seconda moglie ebbe cinque figli, due maschi che seguirono le sue orme paterne e tre figlie: la prima, Adriana, entrò in convento ancora giovanissima, le altre due morirono in tenera età. Per Marianna la sorte fu la stessa della sorellastra. Un modo per salvare il patrimonio da ulteriori frammentazioni, un posto sicuro per la ragazza tra le mura di un monastero e lui, il padre, libero di condurre la vita che voleva. Dunque, il destino di Marianna era ormai segnato. A tredici anni compiuti entrava come postulante nel monastero benedettino di Santa Margherita a Monza. Marianna, che chiameremo da adesso suor Virginia, nome preso in ricordo della madre, era pur sempre una de Leyva e il padre le promise, affinché la sua vita in monastero fosse più accettabile, una dote di seimila ducati su trentanovemila che invece le spettavano di diritto, non solo, ma, da vero mascalzone, non mantenne mai l’impegno preso a favore della figlia. Di tutto questo suor Virginia sembrava non curarsene: abbracciò la vita monastica con grande serenità, tanto che nel 1591 compì la Professione di fede insieme ad altre giovani consorelle, tra la gioia delle altre monache.

Nella “Storia Milanese” scritta nel 1600 dal canonico Giuseppe Ripamonti e che diverrà in seguito il canovaccio per I Promessi Sposi, troviamo una descrizione della giovane monaca: "…era la de Leyva modesta, circospetta, affabilissima, soffusa di un invidiabile candore, amica con tutte, delle discipline letterarie istrutta, come lo poteva essere in allora una giovinetta ben educata, obbediente, per nulla dispettosa, esempio di contegno sociale perfetto”, ma non solo. Tutta Monza era concorde nel lodarla, come lascia scritto, tra gli altri, un poeta locale, un certo Zucchi, nei suoi confronti. A vent’anni suor Virginia fu chiamata ad assolvere un incarico della massima delicatezza. Pur non potendo uscire dal monastero, nel 1596 diventa “La Signora” perché ereditò dal padre, per un’antica consuetudine dei Leyva, la sovranità su Monza per due anni, fino al 1598; in realtà eserciterà questo potere fino al suo arresto. Il suo compito consisteva nell’emettere gride, far arrestare i colpevoli così come rimettere loro le pene e vedremo che quest’ultima sua facoltà la saprà volgere a suo tornaconto.

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(continua)

Testo pubblicato su: 

Wall street journal Magazine

 

 

 

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