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Le "guerre nere" in Africa cosa sono ?

Mario Giro lo spiega in un libro, abbiamo parlato con lui

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Le guerre africane nella contemporaneità, l’epoca della globalizzazione del XXI secolo, sono definite ‘guerre nere’ a causa della loro enigmaticità: conflitti le cui radici sono difficili da capire, che in Europa e sui media occidentali in genere sono rappresentate come brutali e selvagge, dal sapore esclusivamente etnico e perciò stesso arcaiche, quasi incomprensibili per chi non è di quelle parti:

“Si tratta in realtà di conflitti molto più moderni di ciò che si potrebbe pensare, legati alle condizioni socioeconomiche e ambientali delle terre in cui scoppiano, dove si mescolano registri culturali e umani diversi. Le guerre africane sono politiche tanto quanto quelle degli altri continenti, e sono frutto delle trasformazioni che il continente sta vivendo fin dal volgere del millennio. L’Africa non è indietro o in ritardo, non è estranea alla storia: paradossalmente è entrata nella globalizzazione prima dell’Europa, cogliendone le opportunità e accettandone le sfide, soprattutto quelle contraddittorie del mercato”: così scrive il prof. Mario Giro, docente all’Università per Stranieri di Perugia e membro della Comunità di Sant’Egidio, nel volume ‘Guerre nere. Guida ai conflitti nell'Africa contemporanea’.

Nel libro l’autore analizza gli interessi commerciali mondiali verso l’Africa, che causano guerre come nella Repubblica democratica del Congo: “L’analisi dei conflitti conduce necessariamente a quella del fenomeno dei ‘signori della guerra’ (warlordismo, da warlord) come reazione socioantropologica alla decomposizione della società tradizionale. E’ il caso complesso della Repubblica Democratica del Congo ma anche del conflitto ivoriano. Commentati spesso come guerre etniche, quei conflitti rappresentano i prototipi della ‘doppia narrazione’ spesso utilizzata dai protagonisti per esporre le loro ragioni. Paradossalmente la creazione o la manipolazione dei rancori etnici si è intrecciata con la fine stessa del sistema delle etnie o la sua definitiva lacerazione, avvenuta nell’urto con le conseguenze delle trasformazioni globali”.

All’autore abbiamo chiesto di spiegarci come sono le ‘guerre nere’ che si combattono in Africa: “Si tratta di guerre politiche alla stessa stregua di tutte le altre. Spesso in Occidente vengono considerate ‘nere’ nel senso di oscure o selvagge ma al contrario sono conflitti provocati dalle conseguenze della globalizzazione o da pulsioni di influenza di grandi o medie potenze, esattamente come altrove. Dobbiamo comprendere che in Africa si combatte una parte della sfida tra potenze, soprattutto ora che è scoppiata la guerra in Ucraina. Cina, Russia, Usa, Europa ma anche altri Stati come la Turchia, l’Arabia Saudita o l’Iran si stanno sfidando sul continente. Certamente una delle ragioni sono le materie prime ma anche la terra e l’acqua (l’Africa è il continente con più terreno coltivabile disponibile) e la manodopera”.

Quale è la narrazione ‘occidentale’ nell’affrontare le guerre africane?

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“La narrazione occidentale è soprattutto una narrazione europea. Dopo aver colonizzato l’Africa, l’Europa ha tentato una via di mezzo, con una relazione preferenziale che però nascondeva anche intenzioni neocolonizzatrici, almeno così lo hanno percepito gli africani stessi. Ora siamo in una nuova fase in cui l’Europa è combattuta tra disimpegno e nuovo partenariato. La storia pesa (lo vediamo nelle reazioni di alcuni paesi alla presenza francese ad esempio) ma andarsene non è nell’interesse europeo. L’Europa è ossessionata dal tema migratorio e non si accorge di aver bisogno dell’Africa per continuare a crescere”.

Chi alimenta le guerre in Africa?

“Molti conflitti africani sono vecchi e non terminano perché ormai il mestiere delle armi si è imposto come una reazione alla globalizzazione. Non è solo il commercio delle armi (sostanzialmente controllato dai grandi esportatori di armi come la Russia, la Cina, gli Stati Uniti o la Francia) a spingere sui conflitti ma la proliferazione delle milizie e delle forme privatizzate in termini di sicurezza e di difesa. L’aspetto più preoccupante è che gli Stati hanno perso il monopolio della violenza in favore di modalità private indipendenti da qualsiasi istituzione, come in contractors, le milizie di autodifesa, fino a giungere ai jihadisti”.

Quanta responsabilità ha l’Europa nelle guerre in Africa?

“Ha la grande responsabilità di fare poco per fermarle. In Europa c’è un concentrato di conoscenza ed esperienza sull’Africa molto superiore agli altri continenti. Per secoli Europa ed Africa hanno convissuto –nel bene e nel male- nello stesso spazio geografico, storico e culturale. Tuttavia in Europa non si è ancora riusciti a transitare da una concezione centrata sull’esperienza delle ex potenze coloniali (sia arrogante che riluttante) ad una nuova visione di partenariato eurafricano. Siamo troppo concentrati solo sul presente: per una nuova relazione tra Europa e Africa ci vuole uno sguardo proiettato verso il futuro”.

La guerra alimenta l’emigrazione: cosa è necessario per fermare questo ‘fenomeno’?

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“L’emigrazione è certamente alimentata dai conflitti ma non si deve dimenticare gli altri potenti push factor. Innanzi tutto quello ambientale: vaste zone d’Africa subiscono gli effetti violenti del climate change molto più che altrove. Non fare nulla a tale riguardo provoca effetti sconvolgenti. Si pensi soltanto alla desertificazione che avanza e alle enormi inondazioni che colpiscono numerosi paesi africani ogni anno. Poi c’è la perdita di fiducia nel futuro dei propri paesi: moltissimi giovani vanno via per questo, complice la crisi della democrazia e la corruzione dilagante. Si tratta di fattori più forti dei conflitti stessi”.

La pace in Mozambico può essere un ‘modello’ da seguire per l’Africa?

“Certamente sì: è la prova che anche un conflitto lunghissimo (16 anni) e micidiale (1.000.000 di morti) si può risolvere con la ragionevolezza della pace e con una sapiente pazienza mediatrice. E’ una formula in cui attori non istituzionali come la Comunità di Sant’Egidio hanno saputo capire meglio le ragioni profonde della guerra e dare una prospettiva di uscita dalla violenza. La Comunità di Sant’Egidio era già presente nel Paese e ascoltava le aspirazioni del popolo mozambicano: ha avuto il coraggio di impegnarsi in lunghi colloqui. Allo stesso tempo ha saputo connettersi alla comunità internazionale, convincerla che la pace era possibile, coinvolgerla e utilizzare il meglio della diplomazia degli Stati e dell’impegno istituzionale multilaterale. Lo riconobbe anche il segretario generale delle Nazioni Unite dell’epoca. Si tratta di un modello che va al di là dell’Africa: anche per le grandi guerre di oggi (ad esempio Ucraina o Siria, che non vogliono finire) sarebbe bene usare tale approccio”.