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Processo Palazzo di Londra, l’interrogatorio di Enrico Crasso

Ventiduesima udienza del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato vaticana. Crasso respinge ogni accusa. Si prosegue il 7 luglio

Processo Palazzo di Londra | Un momento delle passate udienze del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato | Vatican Media / ACI Group Processo Palazzo di Londra | Un momento delle passate udienze del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato | Vatican Media / ACI Group

Ci saranno circa 200 testimoni, sia delle difese che del promotore di giustizia, al processo vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Il numero dei testimoni, dei quali non c’è ancora una lista ufficiale, scappa al presidente del Tribunale vaticano Giuseppe Pignatone al termine della 22esima udienza del processo, dopo la seconda parte dell’interrogatorio di Enrico Crasso, che per 26 anni ha gestito i fondi della Segreteria di Stato vaticana, che ha rigettato tutte le accuse e ha parlato del suo coinvolgimento nell’affare di Londra come “il più grande errore della mia vita”.

Il processo, come si ricorderà, ruota intorno all’investimento della Segreteria di Stato vaticana su un Palazzo a Londra. Tra i dieci imputati, anche il Cardinale Angelo Becciu, sotto accusa in realtà per presunto peculato in favore della Caritas della sua diocesi di origine e per il contratto di consulenza data all’esperta di intelligence Cecilia Marogna, anche lei parte del processo. Alla fine, dunque, sono tre i tronconi del processo che si vanno ad intersecare.

La sliding door della vita di Enrico Crasso è da lui rappresentata con una e-mail del 2017 in cui accetta un incarico di consulente per la Segreteria di Stato ed è chiamato così a fare una due diligence (adeguata verifica) sull’andamento dell’investimento sull’ormai famigerato palazzo di Sloane Avenue. Perché è a partire da quella e-mail che Crasso si trova poi coinvolto nell’incontro in cui non avrebbe mai dovuto essere, quello per il passaggio delle azioni del palazzo dal broker Raffaele Mincione, che lo gestiva, a Gianluigi Torzi, che ne prese la gestione e che tenne per sé le sole mille azioni con diritto di voto.

“Andare a quell’incontro è stato il più grave errore della mia vita”, ha ribadito Crasso nella seconda parte dell’interrogatorio che era iniziato lo scorso 30 maggio, e che è continuato il 22 giugno. In una udienza di sole due ore e mezza, esaurite le domande del Promotore di Giustizia Alessandro Diddi e quelle delle parti civili, Crasso è stato interrogato dal suo difensore, l’avvocato Luigi Panella, che gli ha permesso di chiarire alcuni aspetti, e poi dagli altri difensori, incluso l’avvocato Marco Franco di Gianluigi Torzi.

In questo, Crasso risulta accusato di truffa, corruzione, estorsione, peculato, abuso d’ufficio, riciclaggio, autoriciclaggio, falso in pubblico e scrittura privata. Tutti reati rigettati dal broker, che in realtà gestiva i fondi per conto di Credit Suisse, sia come dipendente della banca svizzera sia dopo attraverso una sua società.

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“Undici capi di imputazione – ha detto Crasso in quella che è stata una dichiarazione spontanea al termine dell’interrogatorio del suo avvocato – non sono pochi. Io mi auguro che questo tribunale voglia giudicare la mia attività di gestore, non mi metta in condizione di pagare attività di altri soggetti”.

Crasso ha anche detto di non voler attaccare nessuno personalmente, nonostante sia consapevole di essere odiato, che è stato “un baluardo per la difesa della liquidità della Segreteria di Stato, non un mezzo per frodare qualcuno”, tanto è vero - ha aggiunto – che “non c’è un pezzo di carta, un documento nelle 550 pagine di chat che provi che io con Torzi abbia predisposto un piano per frodare la Segreteria di Stato, mio cliente per 26 anni”.

Durante l’interrogatorio, Crasso ha difeso la bontà del suo operato, facendo notare che i bilanci dei suoi investimenti sono sempre stati in attivo, e che quando c’è stata una perdita è stata recuperata in meno di sei mesi.

Crasso ha anche negato di aver effettuato depositi sul fondo Athena di Raffaele Mincione, che era il fondo costituito per l’affare Falcon Oil (un possibile investimento in una compagnia estrattiva in Angola) e che poi era stato utilizzato da Mincione per l’acquisto del Palazzo di Londra. Crasso ha anche negato di aver depositato 38 milioni di dollari in Deutsche Bank, di aver sottoscritto bond in società di Mincione, di aver compiuto investimenti nella Banca Carige, e anche altre accuse che riguardano l’acquisto di crediti sanitari e operazioni di borsa.

Qui va fatta una parentesi sul ruolo del gestore dei fondi. Sia Mincione che Crasso hanno notato che, come gestori, non sono tenuti a rendere conto di tutte le operazioni, ma solo di aver portato a termine il compito che è loro affidato, che è quello di fornire utili. Ovviamente, la Segreteria di Stato poneva vincoli etici su alcuni investimenti, ma l’operatività è completamente in carico al gestore. E infatti Crasso, durante l’interrogatorio, ha fatto sapere che lui non contestava le operazioni di Mincione, ma piuttosto il modo in cui queste operazioni venivano rendicontate.

La due diligence di Crasso, in fondo, sembra portare alla decisione di monsignor Perlasca, allora capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato, di togliere la gestione del palazzo di Londra a Mincione e di affidarla a Gianluigi Torzi.

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Proprio l’avvocato di Torzi, Marco Franco, ha cercato con le sue domande di fare luce su alcune situazioni. Prima dell’incontro del 20 novembre 2018 a Londra, in cui fu definito il passaggio di gestione da Mincione a Torzi, c’era stato un incontro in un bar a via Margutta, a Roma, cui avevano partecipato, oltre Crasso, Torzi, l’officiale di Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi e l’avvocato Manuele Intendente. I tre sarebbero poi stati alla negoziazione con Mincione, e Torzi sarebbe stato considerato da monsignor Perlasca come il rappresentante degli interessi della Segreteria di Stato, ha detto nel suo interrogatorio Tirabassi.

Invitato per un caffè, Crasso ha raccontato che Torzi avrebbe tirato fuori all’improvviso il discorso del palazzo di Londra, dicendo: “Ci parlo io non Mincione, a me non può dire di no”. Crasso ha comunque detto di non sapere su cosa Mincione non avrebbe potuto dire di no, sottolineando che la Segreteria di Stato era sempre libera di trasferire le proprie liquidità, e che solo in seguito ha capito che era da un mese che volevano uscire da Athena.

A Londra, invece, Crasso va su invito di monsignor Perlasca, con la richiesta di aiutare a calcolare quanto restituire a Mincione, facendo quello che definisce “il più grande errore della sua vita”.

Nel passaggio dal fondo Athena alla Gutt di Gianluigi Torzi, quest’ultimo ottiene mille azioni, considerate da lui necessarie per poter gestire il palazzo. In realtà, queste azioni sono le uniche con diritto di voto, il che dà a Torzi un controllo totale dell’immobile.

Crasso dice di essersi accorto solo in seguito della natura peculiare delle azioni, come hanno detto anche altri imputati. E sottolinea che, se le azioni fossero state normali azioni, “Torzi sarebbe ancora gestore del palazzo”, perché “Perlasca aveva la volontà di continuare con Torzi nella gestione del palazzo”.

Sarà in seguito che la Segreteria di Stato deciderà di riprendere il controllo del palazzo, non denunciando Torzi perché c’era un rischio ragionevole di perdere la causa, e piuttosto andando a trattare con il broker la sua uscita dalla gestione. In quel momento, però, i protagonisti della storia sono già diversi, c’è un nuovo sostituto in Segreteria di Stato, l’arcivescovo Edgar Pena Parra, che è deciso a risolvere il problema, e di farlo nel modo più logico possibile.

Chiederà poi un prestito allo IOR per poter concludere l’operazione, lo IOR dopo aver accettato lo rifiuterà e denuncerà il tutto al Revisore Generale vaticano, e poi la storia arriverà sul tavolo del Papa, che farà iniziare un processo sommario.

Crasso, però, è già ormai ai margini. Lui sostiene di essere stato coinvolto in questa storia suo malgrado. Di fatto, molto deve essere chiarito, a partire del ruolo di monsignor Alberto Perlasca, capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato, che compare indistintamente in tutti gli interrogatori. Prima indagato, poi archiviato perché il suo operato è stato giudicato in buona fede dai magistrati vaticani, Perlasca sarà sicuramente uno dei 200 testimoni che dovrebbero essere stati ammessi. E le sue parole saranno cruciali per comprendere tutta la vicenda.