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Un servizio di EWTN News

Paolo VI ai romani, il Patriziato romano come aiuto al Papa per rispondere ai bisogni della città

Una delle caratteristiche del mondo vaticano è la "nobiltà pontificia", alcuni nei secoli l'hanno anche chiamata "nera". Il termine poteva avere due significati. Nero infatti era l'abito da cerimonia per il protocollo pontificio, ma nero poteva essere inteso anche per "oscuro". Ma alla fine uno dei compiti del "Patriziato romano" è sempre stato quello della carità fatta a nome e per conto del Papa. Lo Stato Pontificio aveva ovviamente nobili che gestivano il potere, ma anche nobili che gestivano quello che oggi chiameremmo "welfare".

Nel 1965 era ovviamente quello il compito del Patriziato, un compito cui Paolo VI guardava con gratitudine. Pochi anni dopo con la Pontificali Domus il Papa avrebbe cambiato la "corte", ma avrebbe dato ancora più risalto all'impegno sociale del Patriziato.

Il 14 gennaio del 1965, l'anno che vedrà la conclusione del Concilio Vaticano II, il Papa riceve il Patriziato romano.

Il Papa ringrazia per gli auguri "di cui si è fatto interprete il Principe Torlonia", voce che arriva dalla storia, che racconta di fedeltà, di chi cammina insieme "anche se talvolta agitati da mutuo contrasto, ma entrambi guidati, sebbene distintamente, da una medesima idea, da una medesima sorte, quella romana".

E voce di vicinanza fisica perché  "la vicinanza delle vostre case alla sede di Pietro non è stata soltanto un fatto esteriore e puramente storico; è stata anche un fatto interiore e spirituale; è stato e vuol essere un sentimento del cuore, una devozione filiale, una religione comune, e nelle sue migliori espressioni un’affezione sincera, un amore al Papa: al Papa - voi dite - si crede, si obbedisce, si vuol bene; con lui e per lui si prega; e, se occorre, con lui e per lui si soffre".

Una passione per la città che il Papa condivide con il Patriziato. Un amore non generico, spiega il Papa ma pastorale. "Sapete che cos’è l’amore pastorale? Vi accenniamo appena perché proprio in questo amore Noi ambiremmo di avere anche voi, in qualche forma e in qualche misura, filialmente sensibili e soci. Non crei malintesi il termine di pastorale; non siamo nel regno dell’Arcadia, e nemmeno in quello del sentimento, sebbene anche di sentimento sia ricco l’amore pastorale. Siamo nel regno della carità, fondato da nostro Signore Gesù Cristo «Pastore dei Pastori», come lo definisce Sant’Agostino (Sermo 138, 5; P.L. 38, 765)j e derivato appunto nel cuore di Pietro, come ci dice il Vangelo, dall’amore che l’Apostolo portava al Maestro, e che il Maestro travasa da Sè al suo gregge, cioè all’umanità: «amatorem fecit pastorem», dice ancora lo stesso S. Agostino (ib.): Gesù trasformò l’amatore in pastore".

Premessa teologica e conseguenza pratica, dapprima spirituale: "Roma è cattolica quanto dovrebbe essere? E sentirete sorgere nel vostro spirito, come nel Nostro, un tumulto di contrastanti osservazioni, di affannosi sentimenti: è davvero cattolica, così cristiana, religiosa e buona questa Città del Nostro e del vostro cuore, come lo esigono la sua storia e la sua missione?Ecco allora un primo e caratteristico segno dell’amore pastorale: conoscere i bisogni. Apriamo gli occhi amorosamente sopra i bisogni spirituali di Roma".

Ma non basta perché "le sue proprie risorse religiose non bastano ancora a fare di essa una Città veramente cristiana, una Città veramente fedele a quelle tradizioni, che ne costituiscono il vanto e ne interpretano la sua secolare e più alta missione. Perché non bastano? Le spiegazioni sono ovvie: la popolazione è enormemente cresciuta, lo sviluppo urbanistico ha creato problemi innumerevoli e quasi insolubili per la normale vita religiosa della Città, le sue attribuzioni politiche, sociali, economiche, culturali sono assai aumentate; e perciò si comprende come l’assistenza religiosa e l’espressione tipicamente cattolica dei suoi cittadini non possano pareggiare con la dovuta efficienza l’incremento civile e temporale della Città stessa. Sono stati fatti sforzi lodevolissimi, con risultati molto confortanti, dicevamo; ma si deve riconoscere che Roma cristiana non basta a se stessa. Deve fare molto di più, risvegliando e impiegando le risorse d’ogni genere, che la Provvidenza non le lascia mancare".

Ma l'elenco delle necessità è lungo: "Quante opere di carattere associativo e sociale, oggi indispensabili, attendono chi vi dia nome, obolo e sostegno! Che diremo del bisogno improrogabile di costruire nuove Chiese parrocchiali con le loro relative opere di formazione religiosa e di azione cattolica? Dànno i Romani aiuto proporzionato a questa impresa colossale e indispensabile? e le vocazioni ecclesiastiche (a cui è rivolto, dicevamo, il vostro meritorio interessamento) come mai non vengono che in troppo esigua misura alla grande, affascinante carità pastorale dell’evangelizzazione romana dalle nostre famiglie cristiane? e le scuole cattoliche bastano forse all’educazione della nostra gioventù? e la stampa cattolica in quale condizione si trova? perché non trova udienza fra noi, come invece in altri Paesi? e come potrà conservarsi incorrotta ed operante la fede, se non alimentata dall’insostituibile nutrimento quotidiano del giornale nostro? e le organizzazioni cattoliche, tanto raccomandate dalla Chiesa, sono qui sostenute e promosse per quello che meritano i loro magnifici programmi e la elevazione morale e sociale, a cui esse tendono, del nostro popolo? Bisogni immensi, dicevamo".

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