Roma, 24 July, 2025 / 2:00 PM
“Questo lavoro ha per oggetto lo studio della rilevanza dei diritti etnico-religiosi nell’ordinamento italiano durante periodo storico delle conquiste coloniali. E’ una ricerca che si inscrive in un filone d’indagine che ha portato alla riscoperta di temi, autori, istituzioni proprie di una società che, seppur sviluppatasi in un passato recente, non esiste più. Il sistema coloniale, infatti, ha rappresentato per l’Italia una parentesi di circa settant’anni, che ha avuto inizio con l’acquisto della Baia di Assab nel 1869 ed è terminata con la perdita di ogni possedimento alla fine della Seconda guerra mondiale. Durante questo periodo si sono verificate profonde trasformazioni: il completamento dell’unificazione italiana, la costruzione dell’identità nazionale, il consolidamento della monarchia, il passaggio dai valori liberali all’autoritarismo fascista”.
Da questo inizio del volume ‘Il diritto ecclesiastico coloniale italiano. Esperienze di pluralismo culturale e religioso tra legislazione, giurisprudenza e dottrina nei territori d’Oltremare (1869-1945)’ abbiamo preso spunto per un colloquio con l’autore, prof. Andrea Miccichè, docente di Diritto Ecclesiastico e Canonico presso l’Università di Catania: “A fronte dell’asserita inferiorità dei popoli sottomessi, i Governi che si succedettero o promossero un atteggiamento paternalistico, o si limitarono all’indifferenza, o, ancora, introdussero misure di segregazione.
Invero, tali modalità di esercizio della potestà convivevano anche nella stessa colonia in un dato momento, dato che i rapporti potevano variare nei confronti dei singoli gruppi etnici. La cifra del colonialismo italiano, comunque, fu la sua non sistematicità: pochi furono gli elementi in comune tra gli ordinamenti delle singole terre d’oltremare, poiché ogni scelta era motivata dalla contingenza e non da un progetto ben definito e chiaro”.
Per quale motivo un libro sul diritto ecclesiastico coloniale italiano?
“Il libro nasce dallo sviluppo della tesi del dottorato svolto presso l’Università di Catania. Nello scegliere il tema, mi sono proposto di indagare su un aspetto che sta suscitando l’interesse scientifico della dottrina giuridica. Dopo decenni di oblio, motivato dalla volontà di recidere ogni legame con un’esperienza dolorosa e oscura della storia italiana, credo che si possa affrontare il peso della memoria di un passato recente con obiettività e serenità. Pur nella breve durata (poco più di settant’anni dal 1869 al 1945) il colonialismo italiano è stato, infatti, un laboratorio dove sono state sperimentate soluzioni giuridiche, alcune lesive della dignità umana, altre capaci di precorrere i tempi, che meritano di essere approfondite”.
Esiste una differenza tra diritto ecclesiastico che vigeva in Italia e quello nelle colonie?
“Se il diritto ecclesiastico nella madrepatria aveva come obiettivo principale la disciplina dei rapporti, quasi sempre conflittuali, con la Chiesa cattolica, e le relazioni con le minoranze erano di secondaria importanza, nelle colonie era l’opposto. Infatti, in quei luoghi l’islam, l’ebraismo e il cristianesimo ortodosso erano le religioni più diffuse. Per di più, l’Italia aveva conquistato territori appartenuti all’Impero ottomano: perciò, era necessario evitare che il mutamento dell’assetto fosse così traumatico da provocare ribellioni.
La strategia portata avanti fu il mantenimento del regime preesistente, con la conseguenza che lo Stato sacrificò il principio di uniformità del diritto in favore del riconoscimento giuridico degli statuti personali, ossia norme e delle istituzioni dei gruppi religiosi, soprattutto nel campo del diritto civile. Per esempio, nelle colonie si consentivano la poligamia e il divorzio, vietati nella madrepatria, ma ammessi dai diritti locali, o ancora nelle colonie le sentenze delle magistrature religiose, come i ‘beis din’ rabbinici od i ‘cadì’ musulmani, avevano efficacia secolare, al pari di quelle pronunciate dai magistrati italiani”.
In quale modo il diritto ecclesiastico ha inciso nelle colonie italiane?
“Se, da un lato, l’Italia riconosceva effetti giuridici ai diritti confessionali, dall’altro, la giustizia e l’amministrazione pubblica cercavano di introdurre correttivi e limiti, con l’obiettivo dichiarato di ‘civilizzare’ i popoli sottomessi ed elevare il prestigio politico e il potere economico della nazione. Così, si dava vita a un ibrido, che aveva alcuni tratti del diritto tradizionale e altri del diritto metropolitano. Ciò avveniva soprattutto quando le controversie religiose avevano un rilievo per gli interessi del colonizzatore: ad esempio, nel caso delle fondazioni pie musulmane (auqaf), che gestivano ingenti capitali, si giunse per via interpretativa a una disciplina improntata più sul diritto metropolitano che non sulla sharia”.
Quali 'novità' ha apportato la riflessione sul diritto ecclesiastico coloniale al principio della libertà religiosa?
“Più che il legislatore o la giurisprudenza coloniali, fu la dottrina a preoccuparsi delle ricadute sistematiche del diritto ecclesiastico praticato nell’Oltremare. In particolare, Arnaldo Bertola (1869-1945), professore nell’Università di Torino e profondo conoscitore della materia, essendo stato per lunghi anni magistrato nel Dodecaneso, cercò di dare forma al complesso di disposizioni e decisioni, utilizzando la categoria della libertà religiosa e della dignità della persona. Pur essendo un uomo del suo tempo, egli trasse dall’esperienza coloniale il dovere delle istituzioni pubbliche di garantire l’identità culturale delle persone e dei gruppi, nonché l’obbligo di dare attuazione anche fuori dalla metropoli, con criteri di razionalità e proporzionalità, al principio di leale collaborazione tra decisori secolari e decisori religiosi”.
In quale modo tale diritto ecclesiastico è stato un prototipo per la regolarizzazione della convivenza tra culti?
“Io credo che uno dei lasciti del diritto ecclesiastico coloniale sia stato costituito dalla valorizzazione del principio pattizio nei confronti dei culti diversi dal cattolico. Mentre i rapporti con la Santa Sede si sono storicamente realizzati nella sfera internazionalistica, gli altri gruppi religiosi erano riconosciuti come enti di diritto interno, soggetti a una regolamentazione generale unilaterale.Nei possedimenti, l’Italia, per ragioni di calcolo politico, stipulò ‘concordati interni’ con le rappresentanze religiose locali: un prototipo, forse inconsapevole, delle intese che i padri costituenti avrebbero formalizzato nell’art. 8 comma 3 della Costituzione repubblicana. Perciò, ferma restando la non ripetibilità di un periodo storico chiamato efficacemente dalla dottrina ‘archeologia del pluralismo religioso’, alcuni punti meriterebbero una rimeditazione alla luce delle esigenze di dialogo interculturale che si pongono oggi in una società sempre più frammentata e complessa”.
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