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Il Patriarca di Gerusalemme Pizzaballa, il Signore vuole che io porti qui la Sua Grazia

Un colloquio con il neo cardinale che ha il compito ti mantenere la forza del perdono in Terra Santa

Il Patriarca di Gerusalemme, cardinale Pizzaballa |  | Patriarcato latino di Gerusalemme Il Patriarca di Gerusalemme, cardinale Pizzaballa | | Patriarcato latino di Gerusalemme

Quando il 30 settembre scorso è stato creato cardinale da Papa Francesco, nessuno poteva immaginare che il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, si sarebbe trovato di lì a una settimana a guidare la sua Chiesa in mezzo a uno dei conflitti più cruenti della storia recente tra israeliani e palestinesi. Le parole “usque ad effusionem sanguinis” (fino all’effusione del sangue) che la Chiesa usa nel rito di creazione dei cardinali sono diventate d’improvviso realtà. “Il colore rosso del cardinalato ha avuto fin da subito una connotazione segnata da tanto dolore, da tante fatiche... Il Signore evidentemente mi vuole qui, vuole che io porti qui la Sua grazia” ha detto in un colloquio con CNA.

Abbiamo incontrato il cardinale nella sede del patriarcato latino, da dove non si è più mosso e da dove, con l’aiuto del suo staff, coordina le iniziative a sostegno delle comunità cristiane più provate e bisognose di aiuto. Proprio pochi minuti dopo il colloquio con lui è arrivata la notizia di un bombardamento che ha sfiorato la parrocchia latina della Sacra Famiglia, a Gaza, lasciando qualche danno ma nessuna vittima.

Il suo ritorno a Gerusalemme dall’Italia (dove si era fermato dopo il Concistoro), è avvenuto in modo precipitoso, per l’irrompere della guerra, ed è passato quasi inosservato. Gli ingressi solenni in diocesi sono stati rimandati a data da destinarsi, le iniziative pubbliche sono state molto limitate. “La prima Messa fuori di qui, l’ho celebrata nell’infermeria dei francescani” dove il 21 ottobre è deceduto un frate della Custodia di Terra Santa. La seconda, l’ha celebrata a Deir Rafat, al santuario di Nostra Signora “Regina di Palestina”, patrona della Diocesi, domenica 29 ottobre. Nel corso della celebrazione, si è tenuto un nuovo atto di consacrazione della Terra Santa alla Vergine Maria.

Momenti “intimi” ma significativi, che indicano l’essenza del suo servizio: “Ho inteso la mia creazione a cardinale come conferma di un servizio che già c’era, e che ora è diventato ancora più esigente. Mi chiedo cosa significhi essere Pastore qui, in questo momento e in questa situazione così complessa e lacerata”. Sebbene non ci sia una risposta univoca, il messaggio è quello condensato nella Lettera a tutta la Diocesi del 24 ottobre scorso: “Quello che mi preme, e per cui ho scritto la lettera - spiega -, è il bisogno di dare un orientamento, perché il Pastore deve essere la voce del suo gregge ma deve anche orientarlo. La mia preoccupazione, in questo momento, è dare un orientamento, che - pur tenendo conto delle diverse opinioni e sensibilità che esistono nella nostra diocesi - abbia una radice nel Vangelo. Tutti dobbiamo chiederci cosa il Vangelo ci dice. Non è detto che tutti abbiano la stessa risposta - le differenze resteranno - ma è importante che tutti si facciano la stessa domanda. Il lavoro del Pastore è aiutare tutti a porsi la domanda giusta, che è sempre in riferimento alla persona di Gesù”.

Quella lettera - in cui tra l’altro il cardinale chiede alla sua diocesi il coraggio di “mantenere l’unità, sentirsi uniti l’uno all’altro, pur nelle diversità delle nostre opinioni, delle nostre sensibilità e visioni” - ha suscitato diverse reazioni, anche di forte critica, tra i fedeli. “Il fatto che alcuni abbiano espresso il loro dissenso e che lo abbiano fatto direttamente, è segno che si sentono parte di questa Chiesa. Allora bisogna parlarne, ascoltarsi e cercare di capire l’uno le ragioni dell’altro, l’uno il dolore dell’altro, la fatica dell’altro, senza ostracizzare, senza scandalizzarsi, ma accogliendo e accompagnando. Ho detto anche ad altri ‘Se qualcosa non va, ditelo. Piuttosto che tenerlo dentro, meglio parlarne”.

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Il cardinale, che di solito è il primo a “denunciare” la preminenza di altre appartenenze (politiche, familiari ed etniche) rispetto a quella cristiana, non vuole enfatizzare questo aspetto: “Questo non deve scandalizzare. Il Pastore deve essere padre, deve saper accogliere le differenze, le incomprensioni... fanno parte della vita. L’importante è fare in modo che resti sempre un desiderio, un canale di comunicazione, che questo non diventi un pretesto per ratificare una divisione”.

L’immagine che il patriarca ha scelto per il ricordo della creazione a cardinale è quella della Pentecoste. Gerusalemme è la “Chiesa della Pentecoste” per eccellenza, una chiesa formata da tanti popoli, anime e sensibilità. “La chiesa di Gerusalemme - afferma il cardinale - sarà sempre una chiesa plurale, fatta di culture diverse. Fa parte della sua natura”. Lui stesso è tra gli stranieri a Gerusalemme, in quanto cittadino italiano, sebbene abbia trascorso qui la maggior parte della sua vita. “Essere straniero è tipico di questa terra, non appartieni mai totalmente a qualcuno o qualcosa. In questo momento essere straniero significa anche provare ad avere uno sguardo più distaccato, che aiuti tutti a prendere la distanza necessaria dalle cose. E significa anche accettare l’incomprensione, la solitudine, che è tipica di tutti i posti di responsabilità”.

Come in tutto il mondo, anche in Terra Santa, la Chiesa partecipa alle sofferenze degli uomini su tutti i fronti del conflitto. La comunità cristiana vive a Gaza, sotto i bombardamenti; vive in Israele e alcuni dei suoi ragazzi sono in servizio di leva nell’esercito o richiamati come riservisti; vive nei Territori Palestinesi, dove i problemi sono sempre presenti, aggravati da blocchi stradali, chiusure degli esercizi commerciali, aumento delle incursioni violente dei coloni in alcune aree. “Noi non preghiamo per chi ha ragione o per chi ha torto. Noi preghiamo per quelli che sono in guerra. La mia preghiera - dice il cardinale - è che tutti conservino la coscienza della loro dignità e della dignità di ogni uomo”.

Come patriarca di Gerusalemme, negli ultimi anni il cardinale Pizzaballa ha visitato più volte la comunità di Gaza, un migliaio di cristiani contando tutte le confessioni. “La loro sofferenza tocca il mio cuore innanzitutto dal punto di vista umano: li conosco personalmente, sono stato nelle loro case, ho bevuto il loro caffè…” Sentimenti di dolore e ma anche di conforto abitano il suo cuore pensando a questi fratelli, a cui recentemente ha indirizzato anche un video messaggio. “Pur essendo una comunità piccola e vivendo una situazione molto complessa - ci racconta -, li ho sempre trovati sereni, persone in pace - scosse, con tantissimi problemi, ma senza mai una parola di lamento, di condanna, di rabbia. È una comunità che ha i problemi di tutte le comunità, ma con una fede semplice e solida e questo è un conforto”, soprattutto in questo tempo buio. “Ma è nel buio che la luce brilla di più”.

A livello umanitario, “finora hanno tutto quello che serve” ma “siamo ancora nella fase di gestione dell’emergenza” spiega il patriarca, che già due settimane fa ha incontrato i rappresentanti delle organizzazioni umanitarie che fanno capo alle varie Chiese cristiane. Un primo incontro di coordinamento, a cui seguono aggiornamenti costanti, per non sovrapporsi nella risposta al bisogno. “C’è coordinamento a livello locale tra le Chiese - spiega -, siamo in contatto con il Vaticano attraverso la Segreteria di Stato e anche, in modo particolare, con la Chiesa anglicana”. Recentemente, l’arcivescovo di Canterbury, mons. Justin Welby, ha svolto una visita di solidarietà a Gerusalemme. Per quanto riguarda la possibilità di soluzioni umanitarie per la Striscia di Gaza, “la Chiesa è in contatto con tutte le istanze che hanno una parola, una decisione su questo”.

I cristiani in Terra Santa si sono riuniti per pregare insieme, in particolare nelle due giornate di preghiera per la pace. In entrambi i casi c’è stata una escalation di violenza a Gaza nelle ore immediatamente successive, che li ha toccati da vicino: prima sono stati colpiti l’ospedale anglicano Al Ahli e la chiesa ortodossa di San Porfirio (con 18 vittime tra i cristiani); al termine della seconda Giornata di preghiera è cominciata l’offensiva di terra da parte dell’Esercito israeliano. “Bisogna evitare di avere un approccio magico o consumistico alla preghiera. Dobbiamo superare la logica del risultato. Pregare insieme ha innanzitutto un effetto molto importante sulla vita della comunità. Se la preghiera possa scatenare la reazione del male, sono certo di sì. In quello che stiamo vivendo c’è una cattiveria tale che non può essere solo umana”.

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Non è semplice né immediato parlare di perdono in questa situazione e in questa società: “Qui il perdono è visto innanzitutto come un segno di debolezza e in secondo luogo può essere visto come la giustificazione di una ingiustizia” spiega il patriarca, profondo conoscitore dei popoli e delle mentalità che abitano la Terra Santa. “Senza perdono, senza la capacità di andare oltre il male commesso, non si uscirà mai da questa situazione. Ma i tempi e i modi non sono semplici da individuare”. Sarà questo uno dei temi su cui dovrà lavorare anche la comunità cristiana, una volta superata la fase - anche psicologica - dell’emergenza. “Siamo ancora in un momento in cui le emozioni giocano un ruolo molto importante nei rapporti interpersonali e comunitari. Si porrà sicuramente la questione di ricostruire relazioni sane: la fiducia tra israeliani e palestinesi è stata ferita in maniera molto profonda”. Come cristiani “il nostro compito è affermare con parresia i doveri di giustizia e di pace, ma allo stesso tempo essere vicini senza giudicare, senza condannare, ma accogliendo: accogliendo le differenze, le fatiche, le diverse posizioni. In un momento in cui tutti erigono barriere noi dobbiamo essere quelli dalle porte aperte”.