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Processo Palazzo di Londra, la sentenza entro la prossima settimana

Ultime tre udienze dedicate ai difensori. La difesa di Becciu chiede assoluzione con formula piena per ricostruire la dignità del Cardinale.

Processo Palazzo di Londra | Una foto di archivio del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato | Vatican Media / ACI Group Processo Palazzo di Londra | Una foto di archivio del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato | Vatican Media / ACI Group

Dopo due anni, la strada verso la sentenza del processo vaticano sulla gestione dei fondi per la Segreteria di Stato sembra ormai vedere la luce. Nella prossima settimana, dopo aver ascoltato tutti i difensori, il Promotore di Giustizia vaticano potrà replicare l’11 dicembre, e i difensori potranno contro-replicare al promotore di Giustizia il 12. Quindi, il presidente del Tribunale Pignatone stabilirà la data per la lettura del dispositivo – per la sentenza completa si dovrà aspettare un po’ – che non dovrebbe essere oltre il 16 dicembre.

Sarà da vedere se e come saranno tenute in conto le considerazioni delle difese, nonché le risultanze che sono venute in ambito dibattimentale. Perché se è vero che la requisitoria del promotore di Giustizia Alessandro Diddi, spalmata in cinque udienze con vari eccessi verbali, sembrava non aver tenuto conto di tutto quello che era accaduto in aula, i difensori si sono prodotti con prove, contro deduzioni e una serie di rilevazioni che non possono non essere tenute in considerazione.

Fatto salvo il fatto che ogni avvocato punta all’assoluzione dell’assistito, c’è da dire che tutti gli avvocati, anche quando i loro interessi non convergevano, hanno avuto la stessa posizione su alcuni elementi. Ovvero, l’accusa è frutto di un teorema e di un pregiudizio. L’accusa sta mettendo in campo un processo morale. L’accusa sta giudicando le situazioni del passato con i parametri dell’oggi e delle riforme attuali, ma di fatto quello che accadeva anni fa poteva anche benissimo essere legale anni fa. L’accusa prova a testimoniare un cambio di rotta nella gestione delle finanze, che in realtà non c’è mai davvero stato. L’accusa non solo ha avuto un teorema, ma per seguire questo teorema non ha considerato le prove opposte. L’accusa ha usato leggi ad hoc fatte dal Papa per questo processo, in quattro rescritti che ne hanno mutato le forme a indagine in corso, e questo rischia di delegittimare la stessa corte.

Alla fine, il problema non era il sistema vaticano, né i mercanti che sono entrati nel tempio. Perché se di mercanti si deve parlare, gli investimenti immobiliari sono sempre stato il modo privilegiato in cui la Santa Sede ha reinvestito i soldi (basta scorrere l’ultimo bilancio dell’APSA, e notare come società come Grolux nel Regno Unito o Sopridex in Francia, di proprietà della Santa Sede) erano nate proprio per gestire investimenti immobiliari. Se di fondi si deve parlare, l’Obolo di San Pietro (che poi nemmeno è stato davvero usato per gli investimenti) nasce proprio per il sostegno alla Santa Sede. Un sostegno cui sono chiamati tutti gli enti vaticani, a cominciare dall’Istituto delle Opere di Religione, che da anni dava un contributo non al Papa, ma alla Santa Sede.

Ci si trova, invece, di fronte a un Istituto per le Opere di Religione che ha denunciato la Segreteria di Stato, e che comunque si mette fuori dalla prospettiva solidaristica che vigeva tra e per i dicasteri vaticani. I bilanci dell’Istituto poi mostrano, almeno nei primi anni del nuovo corso, spese ingenti per consulenze o dismissione di vecchi portafogli.

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Le domande, insomma, sono più delle risposte. Ma prima di entrare nel dettaglio di quello che si è detto nelle udienze 81, 82 e 83 del processo, vale la pena, come sempre, riavvolgere il nastro e comprendere quali siano i capi di accusa del processo.

I tre filoni del processo

Il processo si divide in tre tronconi principali. Il primo riguarda l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, nelle quote di un palazzo di lusso a Londra. Dopo aver deciso di non dare seguito alla possibilità di partecipare ad una piattaforma petrolifere in Angola, la Segreteria di Stato diede in gestione al broker Raffaele Mincione un fondo utilizzato per comprare le quote di un palazzo da sviluppare. Poi, diede le stesse quote in gestione al broker Gianluigi Torzi, che – inizialmente all’oscuro della Segreteria di Stato – mantenne per sé le uniche azioni con diritto di voto, e di conseguenza il pieno controllo del palazzo. Infine, rilevò l’intero palazzo, che è stato recentemente rivenduto.

Il secondo filone si concentra sul contributo dato dalla Segreteria di Stato alla Caritas di Ozieri per lo sviluppo di un progetto della cooperativa SPES, presieduta dal fratello del Cardinale Becciu. L’accusa, nei confronti di Becciu, è quella di peculato.
Il terzo filone riguarda la sedicente esperta di geopolitica 
Cecilia Marogna, ingaggiata dalla Segreteria di Stato, che avrebbe utilizzato denaro a lei erogato per delle presunte operazioni di salvataggio di ostaggi (come quello della suora colombiana Cecilia Narvaez rapita in Mali) per fini personali.

La difesa di Mincione

Raffaele Mincione è il broker che Credit Suisse aveva introdotto alla Segreteria di Stato per valutare un potenziale investimento su una società di petrolio in Angola. Poi, quando si decise di non procedere all’affare, la Segreteria di Stato lasciò a Mincione la gestione del fondo che era stato creato per l’occasione. Mincione lo usò per investire in quote del famoso Palazzo di Sloane Avenue. Era un contratto di cinque anni di gestione, più due in caso di disruption (come fu la Brexit), ma la Segreteria di Stato decise di uscire dal progetto, pagò a Mincione un indennizzo e affidò la gestione a Gianluigi Torzi, anche lui a processo.

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Mincione è attualmente accusato di truffa aggravata, peculato e peculato aggravato, abuso di ufficio aggravato, appropriazione indebita aggravata, autoriciclaggio, e conclusione aggravata”. L’Ufficio del Promotore ha richiesto per lui 11 anni e 5 mesi di reclusione, interdizione perpetua dai pubblici uffici e 15.450 euro di multa.

Per Giandomenico Caiazza, legale di Mincione, qui “c’è stato un oltraggio alla verità, sulla persona, sulla sua reputazione professionale, sulla presunta natura predatoria della due diligence di Falcon Oil, sul ruolo di Credit Suisse”.

Ma il legale ha anche puntato il dito sulla pretesa inconsapevolezza della Segreteria di Stato, in particolare sul mutuo che gravava sull’immobile di Sloane Avenue. E ha mostrato una minuta – che lui sostiene essere nascosta tra altri documenti, trovata solo grazie ad un software – in cui si descriveva il mutuo iniziale che gravava sul palazzo da parte di Deutsch Bank.

Alla fine, se la Segreteria di Stato sapeva, ed è provato (sono stati mostrati anche i metadati della creazione dei file) come si fa a dire che c’è stata anche mancanza di informazione?

Caiazza ha lamentato che “l’evidenza documentale è stata piegata ai propri convincimenti”, ha stigmatizzato le “lacune investigative che hanno caratterizzato l’ordito accusatorio sin dalla nascita”, tanto che “il promotore di Giustizia ha costruito una sorta di realtà parallela, un luogo in cui i fatti possano essere rappresentati in modo esclusivamente funzionale agli obiettivi dell’accusa”.

L’avvocato ha ripercorso la vicenda, ha mostrato contratti e minute (tra cui una dell’officiale dell’amministrazione della Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi, datata 8 luglio 2014), ha negato che Mincione sia “un mascalzone, un mezzo farabutto che si intrufola in Segreteria di Stato per fare soldi”, ma piuttosto “un signore che ha fatto una carriera straordinaria”.

Caiazza ha notato che Credit Suisse non viene mai considerata, eppure questa “non era solo la banca depositaria, ma anche il fiduciario della Segreteria di Stato, e ha sottolineato che gli Stati sovrani possono comprendere uno specifico profilo di investimento, come ha fatto la Santa Sede.

L’avvocato Andrea Zappalà, anche lui del team dei difensori di Mincione, ha appunto dettagliato come quel tipo di investimenti non fossero cosa nuova presso la Santa Sede, e anzi che “non c’è mai stata una differenza di investimenti nel tempo” e che la Segreteria di Stato “aveva un’esperienza ultradecennale” nella composizione del proprio portafoglio”.

Un portafoglio che, ha notato Zappalà, ci sono state anche operazioni di security landing, ma anche di altri credit lombard e price cap. Il promotore – ha detto l’avvocato – ci ha detto cose non vere: che la Segreteria di Stato non avesse mai effettuato investimenti in strumenti finanziari complessi o rischiosi; secondo che la stessa non avesse esperienza: e, infine, che non avesse mai contratto debiti per investire”.

Claudio Urciuoli, anche lui nel tema di avvocati, ha sottolineato che “è un fatto inoppugnabile che la Segreteria di Stato gestisse riserve patrimoniali molto significative, e questo già prima dell’arrivo di monsignor Becciu. E lo faceva per il tramite di investimenti finanziari anche complessi, che erano affidati a banche italiane, banche straniere, persone esperte. Quindi, i mercanti nel tempio, se di mercanti si può parlare, c’erano già da molto tempo”.

Urciuoli ha parlato di “un errore prospettico” del Promotore di Giustizia, il quale “anziché guardare la Segreteria di Stato dall’esterno cioè dal punto di vista del mondo finanziario regolamentato, dal punto di vista di Raffaele Mincione, si è presunto e si è assunto che Raffaele Mincione avesse non solo la possibilità ma anche l’obbligo di neutralizzare le categorie giuridiche, finanziarie internazionali a favore di quelle che l’Ufficio del Promotore di Giustizia ha individuato nel diritto vigente interno allo Stato della Città del Vaticano”.

E ha aggiunto che “da questo difetto genetico, da questo difetto di prospettiva ne sono discese una serie di conseguenze disastrose e chiaramente incomprensibili per la posizione dell’imputato. Il concetto di propensione al rischio, che è una caratteristica intrinseca di qualsiasi tipo di investimento, diventa una speculazione, e su questo concetto si è costruito tutto”.

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Sono quattro i cardini del processo, secondo Urciuoli. Il primo è la figura di monsignor Alberto Perlasca, per un decennio capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato. Perlasca non è indagato, ha testimoniato con un memoriale che poi, durante il processo, si è scoperto al limite sollecitato da quello che lui credeva essere un anziano magistrato, e altri non era che Francesca Immacolata Chaouqui, prima in una commissione vaticana e poi a processo nel cosiddetto Vatileaks 2.

Perlasca, ha detto Urciuoli, era “un testimone chiave”, ma poi  anche l’Ufficio del Promotore “ha dovuto alzare le mani davanti a una situazione contradditoria”.

Il secondo cardine è l’Obolo di San Pietro, “l’architrave pop e mediatico di questo processo”, sul quale però c’è stata “una completa inversione di rotta”.

Il terzo cardine è la costituzione apostolica Pastor Bonus, perché si diceva che questa non dava alla Segreteria di Stato facoltà giuridica di amministrare le proprie riserve. Una ricostruzione apparsa “totalmente assurda”, tanto che “le stesse accuse di parte si sono affrettate a ripudiare questa posizione”.

Il quarto cardine è stato definito “la parte più surreale”, ed è Luciano Capaldo, presentato come “il maxi consulente, il salvatore della patria”, “che ci è venuto a dire che la cifra di 275 milioni di pound era una cifra fuori da ogni logica di mercato”, l’uomo a cui “dobbiamo attribuire la paternità di aver abbandonato lo sviluppo residenziale e la riconversione in uffici dell’immobile di Sloane Avenue”.

“La Segreteria di Stato nel cedere l’immobile in modo così immotivatamente affrettato – ha proseguito – ha fatto una vendita in perdita. La storia si incaricherà di giudicare questo fatto: sapete quando? Quando Bain Capital si rivenderà l’immobile e vedremo quanto ne ricaverà”.

L’avvocato ha, inoltre, evocato la figura di Enrico Crasso, che “certamente non poteva essere un pubblico ufficiale” e di Gianluigi Torzi, “un interlocutore scelto dalla Segreteria di Stato” e non dall’imputato; fino a ricordare altri soggetti che avrebbero potuto essere convocati, ma che, tuttavia, non sono a processo.

L’utimo avvocato del team Mincione a intervenire è stata Ester Molinaro, che ha invece parlato dell’accusa di truffa. Un reato morto “non durante il processo, ma già durante le indagini”, prima di tutto perché “le perizie fatte sul valore dell’immobili sono credibili, attendibili, bisogna solo intendersi sui criteri di calcolo, dove vengono estremizzate le due categorie: il criterio di calcolo per beni fermi, statici, immobili, e quello per i progetti. Sono criteri diametralmente opposti”.

Molinaro ha spiegato che la Segreteria di Stato non ha comprato un bene, ha partecipato piuttosto a un progetto di investimento, da cui è poi uscita in anticipo.

La difesa del Cardinale Becciu

I difensori del Cardinale Becciu hanno avuto una ultima appendice dopo la vibrante arringa di due settimane fa, e hanno ribadito il fatto che tutta l’accusa era “un teorema per coinvolgere il cardinale Becciu” come responsabile della gestione dei fondi della Segreteria di Stato che in realtà spettava all’ufficio amministrativo. A Becciu il promotore di Giustizia ha contestato i reati di abuso d'ufficio, peculato e subornazione, chiedendo al Tribunale una pena di sette anni e tre mesi di reclusione, oltre a 10.329 euro di multa e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

L’avvocato Fabio Viglione ha sottolineato le “evidenti contraddizioni dell’accusa, e il giudizio verso Becciu misurato su fatti non documentati”, rispetto ai quali “il suo coinvolgimento è totalmente ingiustificato”.

E questo pregiudizio nasce dal memoriale di monsignor Perlasca, quello che poi si è scoperto essere nato anche da suggerimenti esterni. Ma – si chiede l’avvocato – “per quale motivo

il cardinale avrebbe dovuto consciamente violare la legge e consentire a persone sconosciute di guadagnare ai danni della Segreteria di Stato?”.

Come già fatto nelle udienze precedenti, Viglione ha descritto monsignor Perlasca come ““portatore sano di malafede, che dovrebbe essere il primo a conoscere gli investimenti realizzati”. E cita il memoriale dell’arcivescovo Edgar Peña Parra, il successore di Becciu come sostituto della Segreteria di Stato. Nel memoriale, Peña Parra parlava persino di “un metodo Perlasca”, e Viglione ha sottolineato che c’era “un quadro ben definito su chi prendeva le decisioni dopo l’istruttoria degli investimenti”.

 Per questo, ha ribadito Viglione, “è inconcepibile, rispetto ai dati che ci offre il processo, riconoscere una responsabilità del cardinal Becciu per questi investimenti”.

A vedere la storia degli interrogatori di Perlasca, l’ex capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato cambia radicalmente punto di vista. Per Viglione, tutto nasce dopo l’interrogatorio del 29 aprile 2020, quando il Promotore dice a Perlasca: “le diamo un secondo tempo”.

Si arriva da qui al memoriale del 31 agosto 2020, ispirato da Francesca Immacolata Chaouqui e Genevieve Ciferri

Viglione ha anche contestato che la requisitoria non ha mai parlato della Caritas di Ozieri, cui finivano i finanziamenti che infatti non erano destinati al conto della cooperativa Spes gestita dal fratello di Becciu, e ha notato che comunque le operazioni – un sostegno ad una iniziativa locale di un panificio per far lavorare persone ai margini dove “stanno in questo momento sfornando pane” -

Avevano la fiducia dell’ ex vescovo di Tempio Ampurias Sanguinetti, sotto la cui giurisdizione cadeva anche Ozieri.

Anzi, Viglione dice che i 25 mila euro di finanziamenti hanno permesso di far ripartire il panificio della cooperativa distrutti da un incendio, mentre gli altri 100 mila euro contestati  sono stati chiesti dal vescovo Corrado Melis per il progetto della “Cittadella della Carità”.

L’altro legale del Cardinale Becciu, Maria Concetta Marzo ha evidenziato “l’enorme sofferenza che le accuse hanno provocato al cardinale Becciu come uomo e sacerdote, nonostante la sua totale innocenza”. Le prove esibite nel dibattimento avrebbero “dimostrato la più totale innocenza del cardinale da ogni reato contestato”, da qui, la richiesta di “assoluzione con la formula più ampia possibile, per restituire al cardinale la sua dignità personale”.

La difesa di Tirabassi

Le udienze hanno visto anche la seconda parte della difesa di Fabrizio Tirabassi, officiale della amministrazione della Segreteria di Stato, accusato di peculato e peculato aggravato, abuso d’ufficio aggravato, corruzione e corruzione aggravata, riciclaggio-autoriciclaggio, truffa aggravata, estorsione aggravata e abuso d’uffici. In più di cinque ore, l’avvocato Massimo Bassi ha sottolineato che Tirabassi era “il vero responsabile dell’ufficio”, e che “esercitava il potere co pugno di ferro”.

Tirabassi era, insomma, un esecutore degli ordini. Anzi, più volte mette in guardia dalla situazione, anche quando si va a Londra a trattare l’uscita di Mincione, e si va senza avvocato della Segreteria di Stato. Allora si pensa che Torzi farà gli interessi della Segreteria, ma non spetta a Tirabassi avere dubbi, anche perché – spiega l’avvocato Bassi – “Torzi era stato presentato da Giuseppe Milanese, che era amico del Papa, dunque che motivo ci sarebbe stato di non fidarsi?

Per la cronaca, Milanese aveva fatto affari con Torzi, che aveva acquistato dei crediti sanitari della sua cooperativa OSA (lo notò anche il Promotore di Giustizia nella sua requisitoria) e fu poi la persona scelta da Papa Francesco per portare avanti i primi negoziati con Torzi per cedere le mille azioni con diritto di voto che aveva trattenuto per la gestione dell’immobile.

Di quelle azioni, tra l’altro, Tirabassi non si era accorto in prima battuta, e poi – spiega l’avvocato – aveva ricevuto da Perlasca la spiegazione che erano azioni che servivano a Torzi per poter gestire il palazzo.

L’avvocato ha affrontato anche le fees che Tirabassi aveva da UBS, una possibilità che gli era stata dall’ex capo dell’ufficio amministrativo Piovano. Era un contratto in essere con UBS, ha spiegato, e dunque la Segreteria di Stato non poteva avere niente da contestare.