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Cardinale Erdő, l’Ungheria come nazione ponte

Il ruolo dell’Ungheria come nazione ponte. Il lavoro di riconciliazione. Gli effetti del viaggio di Papa Francesco in Ungheria. Intervista al primate di Ungheria

Papa Francesco, Chiesa di Ungheria | Papa Francesco e i vescovi e il clero ungherese al termine dell'udienza del 25 aprile 2024, Aula Paolo VI | Vatican Media Papa Francesco, Chiesa di Ungheria | Papa Francesco e i vescovi e il clero ungherese al termine dell'udienza del 25 aprile 2024, Aula Paolo VI | Vatican Media

Non un ruolo politico, ma un ruolo di vicinanza umana che può aiutare i legami nella regione, può essere un contributo per la pace, può aiutare nel dialogo ecumenico: il cardinale Péter Erdő, arcivescovo di Esztergom – Budapest, tratteggia così il ruolo della Chiesa ungherese.

Lo fa in una intervista con ACI Stampa a margine del pellegrinaggio ungherese a Roma, che ha portato dal 23 al 25 aprile circa 20 mila pellegrini nella Città Eterna per ringraziare il Papa della visita in Ungheria del 28-30 aprile dello scorso anno.

Eminenza, un pellegrinaggio a Roma ad un anno dalla visita di Papa Francesco. Perché?

Volevamo ringraziare il Santo Padre per la sua visita in Ungheria. Questa visita ha rappresentato per noi una speciale vicinanza pastorale. Era stato a Budapest per concludere il Congresso Eucaristico Internazionale, un grande evento internazionale, ma non aveva trascorso alcuni giorni nel Paese come era successo nelle nazioni vicine, in Romania prima e poi in Slovacchia, subito dopo la chiusura del Congresso Eucaristico Internazionale. Alcuni cattolici in Ungheria si erano rattristati che il Papa non aveva fatto una visita proprio per il popolo ungherese. Ma già nel viaggio di ritorno dalla Slovacchia, papa Francesco aveva detto che voleva venire a visitare gli ungheresi. Lo abbiano compreso come un gesto di vicinanza. Il viaggio del Papa in Ungheria è stato un evento costruttivo, armonico. La gente era contenta di essere in unione con il successore di San Pietro, e anche il Santo Padre sembrava essere contento e felice.

Quali sono stati gli effetti del viaggio di Papa Francesco in Ungheria?

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Ci sono stati molti effetti positivi. Ricordo il discorso che ha pronunciato all’Università Cattolica Péter Pázmány di Budapest, dove ha visitato il dipartimento di Informatica e Bionica. Quel discorso, concentrato sul rapporto tra fede e scienza, è stato poi oggetto di discussioni e conferenze.

È stato importante anche l’omaggio che il Papa ha reso alla memoria dei nostri martiri – omaggio che è stato preso come un incoraggiamento ad essere fedeli alla nostra eredità e di continuare nel segno di quella spiritualità che conserviamo. Papa Francesco ha parlato anche del ruolo di ponte del popolo ungherese e dei rapporti tra Oriente e Occidente. È una circostanza, questo essere ponti, che ci impone il dialogo tra queste due versioni della cultura occidentale ed europea, perché pure la cultura bizantina appartiene a questa realtà e non è pensabile nella forma attuale senza il cristianesimo.

Lei citava questo particolare ruolo di ponte della Chiesa ungherese. In che modo questo ruolo si può concretizzare in questo particolare scenario internazionale, in particolare con una guerra nel cuore dell’Europa che mette in discussione i rapporti tra Oriente e Occidente?

Noi, come Chiesa ungherese o comunità cattolica ungherese, non abbiamo illusioni di poter risolvere le grandi crisi politiche del mondo. Non pensiamo secondo l’idea della Chiesa Imperiale, una categoria che è durata dall’epoca dell’Impero Romano – cristiano fino al XX secolo. Viviamo in una posizione molto più modesta. Però possiamo rendere testimonianza della nostra fede e del messaggio cristiano anche riguardo questioni che sono collegate con la sorte dell’umanità.

Cosa si può fare dunque?

Negli ultimi decenni, abbiamo cercato di fare gesti verso i popoli vicini con i quali nella storia avevamo avuto conflitti e antagonismi. Si trattava di atti simbolici, ispirati al “perdoniamo e chiediamo perdono” della Lettera dei Vescovi Polacchi ai Vescovi Tedeschi del 18 novembre 1965. Dal 2006, dunque, cerchiamo di invitare per la festa di Santo Stefano vescovi della regione. Nel 2023, l’omelia di Santo Stefano in occasione della festa nazionale, per esempio, è stata tenuta dal presidente della Conferenza Episcopale Slovacca, l’arcivescovo Bernard Bober, e quest’anno ci sarà l’arcivescovo Aurel Percă, presidente della Conferenza Episcopale Romena. Credo che a livello di gesti e di pensiero comune sulle questioni umane siamo molto vicini ai cattolici della regione. Non si tratta di politica diretta, ma è un avvicinamento umano.

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In che modo invece potete essere protagonisti del dialogo ecumenico, specialmente in questo momento in cui Oriente e Occidente sembrano essere così distanti? Addirittura, il Patriarcato di Mosca ha diffuso la definizione di “guerra santa” per descrivere il conflitto in Ucraina…

Malgrado le differenze tra Chiesa di Oriente e di Occidente riguardo l’atteggiamento verso il potere civile – un atteggiamento ereditato culturalmente – noi cerchiamo, e non senza risultati, di scoprire lo spirito del pensiero ortodosso e il messaggio che si trova nella sua eredità propriamente religiosa. Sappiamo che gli imperatori bizantini o i sovrani cristiani dei Paesi a maggioranza ortodossa e le loro rispettive Chiese sono sempre stati molto collegati, e comprendiamo questo tipo di eredità storica. Allo stesso tempo, in quello stesso contesto possiamo identificare gli elementi che appartengono allo spirito del cristianesimo.

In fondo, anche durante l’epoca sovietica, la Chiesa ortodossa, al di là del suo funzionamento pubblico, ha potuto mantenere molti valori spirituali e religiosi nel mezzo di tutte le difficoltà.

La Chiesa in Ungheria si trova al crocevia di molte culture e di molte crisi. È vicina alla Chiesa in Ucraina, è ponte tra Oriente e Occidente, è toccata anche dalla crisi in Terrasanta, considerando che l’Ungheria ospita una delle comunità ebraiche più grandi dell’Europa. Quale è la visione che si ha riguardo questa crisi mondiale?

Se la domanda comprende tutte le crisi che sono in corso nel mondo, non è un segreto che anche tra i cristiani si sentono delle voci apocalittiche. È vero che il Vangelo è stato proclamato già su tutto il mondo, però nessuno sa il giorno e l’ora della fine e quindi non possiamo scendere in speculazioni aritmetiche.

Cosa si può fare allora?

È importante dialogare con le correnti spirituali che si trovano all’interno di diverse comunità religiose, sia con le altre confessioni cristiane, ma anche nell’Ebraismo. Possiamo da una parte scoprire l’angoscia che si trova in profondità in alcune correnti e movimenti spirituali, e dall’altra dialogare mostrando che abbiamo un buon messaggio e sottolineando che i discepoli di Gesù non devono avere paura. Si tratta di una frase pesante se le circostanze sono invece cariche di minacce e di aspetti tragici. Ma sappiamo che durante e nella profondità della crisi si può incontrare Dio. Dio va però cercato, o si deve comunque girare con gli occhi aperti verso la realtà di Dio.

Quale è il problema più attuale oggi?

È la difficoltà di ragionare liberamente e di usare la propria libertà. Nel mezzo delle grandi ondate di informazione e disinformazione, alimentati anche dalla realtà dei social media, ci si abitua a non ragionare, ma piuttosto a reagire immediatamente. L’essere umano però è capace di fare più che reagire, e questo il suo libero arbitrio. Ma per usare il libero arbitrio si deve usare anche la ragione, cioè l’astrazione e la previsione delle possibilità o delle alternative. Se non c’è una visione sul futuro, se non c’è alcun pensiero logico, il libero arbitrio ovviamente diminuisce.

E da cosa dipende questa erosione del libero arbitrio?

È soprattutto un effetto della distrazione. Sono effetti che arrivano con una forza mai immaginata, una grande quantità di informazioni audiovisive che creano dipendenza. Non a caso, alcuni Paesi cominciano a vietare o limitare l’uso di alcuni programmi per i più piccoli, per evitare la dipendenza.

Quale è lo stato della fede in Ungheria?

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Non si conosce lo stato della fede, perché la fede come tale è come lo stato di grazia santificante: non può essere oggetto di una esperienza sensoriale. Si possono però misurare gli effetti della fede, ovvero l’esercizio della religione e la manifestazione della fede. Anche la nostra società è sicuramente secolarizzata, l’Ungheria non è una grande eccezione. Tuttavia le statistiche dello scorso anno, derivate dal censimento, vanno comprese. Il censimento presentava una domanda facoltativa e teoricamente anonima sulla religiosità e sulla appartenenza religiosa. In molti non hanno risposto. Non significa che non sono credenti. Può significare che non voglio dare la loro religiosità in pasto a dati statistici. Questo ha fatto sì che i numeri delle Chiese storiche, secondo le statistiche, sono risultati modesti.

Ma quale è la realtà?

Stiamo un po’ meglio di quello che si pensa. La differenza non è soltanto di natura giuridico-politica, ma anche mediatica. C’è un aspetto da considerare, che non è semplicemente paura e non è neanche il rifiutare di connettere la propria convinzione religiosa con il comportamento pubblico. Piuttosto, c’è una diffidenza riguardo le manifestazioni pubbliche. Quelli che non hanno risposto non necessariamente ritengono che la religione sia un fatto soltanto privato.

Quale è lo stato delle vocazioni in Ungheria?

Le vocazioni sacerdotali all’interno della Chiesa cattolica sono scarse. Questo fenomeno è arrivato anche in Ungheria e tocca anche i greco-cattolici, cosa che dimostra che non è una questione che dipende principalmente dal celibato, ma piuttosto dalla fede, dal funzionamento della Chiesa e dall’atteggiamento dei giovani, i quali ormai prendono molto difficilmente delle decisioni esistenziali.

In che modo si può invertire la tendenza?

Credo che si debbano rafforzare le comunità cattoliche locali, non solo quelle delle parrocchie, ma anche quelle dei movimenti di spiritualità che sono sempre più numerosi in Ungheria. I cattolici non devono tenere i contatti tra loro solo nelle celebrazioni liturgiche, ma anche in tutti gli aspetti della vita. Devono conoscersi meglio e aiutarsi in tutti i problemi. In questo campo ci sono alcuni risultati, come “Fidati”, un servizio su internet fornito da specialisti cattolici (psicologi, medici) che aiutano le famiglie e le persone che sono chiamate ad affrontare problemi educativi, ma anche umani, come la ricerca di un partner. Erano problemi forse non percepiti un secolo fa, ma che oggi sono in prima linea.

Cosa ha fatto la Chiesa ungherese in questo senso?

Abbiamo ricostruito una serie di sale parrocchiali e case di cultura. Queste appartengono alle parrocchie e sono usate molto bene, con incontri tematici. Siamo anche particolarmente ispirati della conoscenza dei cristiani del Medio Oriente: loro sono riusciti a sopravvivere non soltanto secoli ma più di mille anni in posizione di minoranza in una società che aveva diversi ritmi e pensava diversamente.

C’è dunque speranza?

In questo senso c’è speranza. Nella lettera a Diogneto si parlava dei cristiani come di un popolo presente ovunque, che non differisce dall’ambiente riguardo lingua vestiti, ma in base alla propria convinzione e comportamento umano. Viviamo una diaspora. Ma oggi può essere una diaspora molto più coerente e forte di quanto era quella Chiesa che raccoglieva gente che credeva e anche gente che vi apparteneva per comodità.

Oggi c’è chi appartiene alla Chiesa per comodità?

Chi appartiene oggi alla Chiesa non vi appartiene più per comodità. Lo è sempre più per coerenza personale, per esperienza personale della fede e per i rapporti con la comunità cristiana cattolica. Certo che tutto ciò va anche contro la corrente generale di individualizzazione che abbiamo visto specialmente durante la pandemia. Ma proprio in quel periodo siamo diventati consci del fatto che noi abbiamo da combattere contro l’individualismo.