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Simone Stifani: "La disabilità non è una vocazione"

Per la giornata internazionale delle persone con disabilità

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“Ricevere la cura può sembrare un’azione passiva (e per certi versi lo è), ma essa in quanto tale nasconde un possibile pericolo: quello della possibile perdita della propria identità. Si può ricevere la cura quasi come se fossimo unicamente fissati in una postura passiva di ricezione. In realtà, però, se non facciamo scendere nel profondo di noi stessi tale realtà, allora la cura rimarrà a un livello troppo superficiale…

Accogliere la cura in un modo fecondo e consapevole significa riappropriarsi della consapevolezza della propria fragilità e del proprio limite, di cui appunto occorre aver cura. Ad un livello più profondo, però: quello della vita interiore, oggi davvero trascurata”: così scrive il giornalista di ‘Radio Orantes’ del monastero benedettino San Giovanni Evangelista di Lecce e collaboratore della rivista ‘Benedictina’ del Centro storico benedettino italiano, laureato in Scienze religiose, Simone Stifani, nel libro ‘La disabilità non è una vocazione’, scritto insieme a fratel Luciano Manicardi, già priore della comunità monastica di Bose.  

Quindi la cura è una responsabilità: “Aver cura è una responsabilità che ci fa evitare di dare quelle risposte che sono scappatoie al non senso della vita, al non senso del limite della disabilità. Come diceva Dietrich Bohnoeffer, Dio non è la risposta tappabuchi posta innanzi all’incapacità della nostra società di includere e riconoscere la vita nella propria vita.

Aver cura di noi stessi significa allora far rinascere dentro di noi quella vita che non si lascia definire dal limite, ma che partendo dalla consapevolezza della sua presenza riesce a far fiorire una vita nuova e generare nuova fecondità, una fecondità pasquale che possa anche aiutare il mondo, la società, a divenire realmente ciò che è chiamata ad essere: famiglia umana che ‘muta il proprio lamento in danza’, come dice il salmista”.

Nella giornata internazionale delle persone con disabilità chiediamo a lui, che è conoscitore delle sfide legate alla condizione di disabilità, in quanto le vive direttamente, di spiegarci il motivo per cui la disabilità non è una vocazione: “La disabilità non è una vocazione in quanto essa non può definire la persona umana. Spesso, infatti, si riduce la persona al limite che vive legando la propria esperienza umana alla condizione di disabilità vissuta.

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In realtà, la disabilità è soltanto una possibilità dell’umano che si esprime nonostante il proprio limite. Proprio per questo, allora, occorre fuggire da ogni logica settaria ed escludente: ogni persona con disabilità, proprio perché persona umana, ha infinite possibilità di espressione e realizzazione di sé che non coincidono col limite ma lo trascendono.

Si tratta di operare, come per tutti, un discernimento su quale talento Dio ha dato a ciascuno di noi e guardarsi come Lui ci guarda: come ad un dono prezioso e unico per il mondo che chiede di essere condiviso, andando oltre quella che potrebbe essere considerata l’unica vocazione della persona con disabilità: l’offerta della propria sofferenza come redenzione per l’umanità”. 

Però si pensa ancora che la disabilità sia una ‘punizione’: perché molti la considerano un ‘castigo’ di Dio?

“Questa riflessione si perde nella notte dei tempi. Per molti la disabilità, la sofferenza era considerata la conseguenza del peccato. Altrove, la disabilità è intesa come opportunità preziosa concessa da Dio ad anime elette per espiare il male nel mondo che altrimenti richiederebbe il castigo, la vendetta di Dio.

In questo caso la persona con disabilità funzionerebbe un po’ come un parafulmine a favore di tutti. Gesù stesso, invece, nei Vangeli condanna tale logica dicendo che è la vita umana, sconfinata e liberante, ad essere mezzo per glorificare Dio e che la sua Pasqua ha già salvato e liberato ciascuno di noi”.

Come superare questa ‘mentalità’?

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“Va superata con una seria e serena riflessione teologica ed esistenziale che prenda in considerazione la vita umana con le sue contraddizioni, i suoi limiti riscoprendo quale sia il vero volto di Dio. Annunciare quel Dio di Gesù che non castiga, non dona la sofferenza facendo sentire privilegiato chi la riceve ma a tutti chiede, all’interno di quella sofferenza, di diventare dono per gli altri nonostante tutto. Come fare concretamente?

Il sinodo voluto da papa Francesco ci sta indicando la strada. A mio avviso occorre tornare a dare spessore alla vita interiore delle nostre comunità cristiane. Soltanto così, allora, si innescheranno in esse dei processi operativi molto concreti volti a compiere quel passaggio tanto desiderato da papa Francesco: passare dalla logica dell’io a quella del noi”.

Allora in quale modo è possibile vivere il ‘limite’ della disabilità?

“Occorre innanzitutto evitare di far finta che il limite non esista. Occorre accoglierlo, farci i conti, lasciarsi ferire da esso. Soltanto in questo modo si potrà poi lottare affinché non sia esso a decidere la nostra felicità, guardando così alla bellezza insita nella propria vita, una bellezza ferita e proprio per questo realmente autentica”.

In cosa consiste la grazia della debolezza?

“Dostoevskij nel suo Epistolario ha scritto che ‘nel dolore la verità si fa più chiara’. È proprio ciò che vivo anch’io. Da questa posizione in cui io mi trovo si vede il mondo, si legge la realtà, si vivono le relazioni, si ascoltano parole in modo totalmente altro.

La debolezza diventa opportunità per sviluppare uno sguardo diverso anche su noi stessi. Essa costringe a fare i conti con quei desideri buoni che non possono essere realizzati. Occorre allora fare discernimento su quanto il cuore desidera e ciò che esso può realmente vivere. Questa è una vera ascesi difficile ma necessaria perché soltanto così la vita può finalmente fiorire nella sua verità”.

Nella Chiesa quale ‘posto’ ha la persona con disabilità?

“Occorre riconoscere che la Chiesa, soprattutto quella italiana di cui evidentemente ho maggiore esperienza, ha fatto molti passi da gigante, forse un po’ con il freno a mano. L’imprescindibile presenza del Servizio Nazionale della Pastorale per le persone con disabilità della CEI ha rotto gli argini, ha costruito ponti ed ha soprattutto allargato i confini più ristretti della nostra pastorale ordinaria. Molto ancora deve essere fatto affinché si passi da una pastorale parrocchiale e diocesana in cui la persona con disabilità non sia un mero oggetto di poche attenzioni ma diventi protagonista, soggetto attivo della pastorale in ambito liturgico, catechetico, comunicativo…

Penso sia necessario, come ha chiesto il recente documento finale approvato dall’Assemblea Sinodale delle Chiese in Italia, che ciascuna diocesi o metropolia si doti di un Servizio per la pastorale delle persone con disabilità o che includa all’interno del Consiglio Pastorale diocesano almeno una persona con disabilità in modo tale che ogni Chiesa locale guardi a se stessa e viva se stessa attraverso coloro che vivono il limite in prima persona, non più delegando il proprio sentire ad altri”.

Si può proporre ora Ermanno lo storpio come ‘profeta’ per i nostri tempi?

“Ermanno detto ‘lo storpio’ o ‘il contratto’ a causa della sua grave disabilità è un monaco benedettino tedesco vissuto nell’anno 1000, che a dispetto della sua disabilità e della concezione del suo tempo, si distinse per i suoi molti talenti: esperto di astronomia, storia, liturgia è divenuto l’emblema che la disabilità non è una vocazione e che la vita è molto più sconfinata di quello che potremmo pensare. E’ un profeta in quanto, già nel suo tempo, non si è crogiolato nel proprio dolore ma ha dimostrato che Dio aveva arricchito di molti doni naturali la sua umanità. Occorre riproporlo con forza ancora una volta oggi, soprattutto per i nostri tempi, per la nostra società civile malata di efficientismo, per la quale si esiste solo se si risponde a determinati cliché”.

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