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Benedetto XVI, la fine del vecchio, l'inizio del nuovo: L'analisi di Georg Gänswein

L'arcivescovo Georg Gaenswein |  | Walter Breitenmoser/CNA
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La presentazione alla PUG |  | AA
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In una delle ultime conversazioni che il biografo del Papa, Peter Seewald di Monaco di Baviera, poté avere con Benedetto XVI, nel congedarsi gli chiese: “Lei è la fine del vecchio o l’inizio del nuovo?”. La risposta del Papa fu breve e sicura: “L’una e l’altro” rispose.

Il registratore era già spento; ecco perché quest’ultimo scambio di battute non si trova in nessuno dei libri-intervista di Peter Seewald, neanche nel famoso Luce del mondo. Si rinvengono solo in un’intervista, che egli concesse al Corriere della Sera all’indomani della Dichiarazione di rinuncia di Benedetto XVI, nella quale il biografo si ricordò di quelle parole chiave che figurano in certo qual modo come massima sul libro di Roberto Regoli.

In effetti devo ammettere che forse è impossibile riassumere più concisamente il pontificato di Benedetto XVI. E lo afferma chi in tutti questi anni ha avuto il privilegio di fare da vicino esperienza di questo Papa come un classico “homo historicus”, l’uomo occidentale per eccellenza che ha incarnato la ricchezza della tradizione cattolica come nessun altro; e che – nello stesso tempo – è stato talmente audace da aprire la porta a una nuova fase, per quella svolta storica che nessuno cinque anni fa si sarebbe potuto immaginare. Da allora viviamo in un’epoca storica che nella bimillenaria storia della Chiesa è senza precedenti.

Come ai tempi di Pietro, anche oggi la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica continua ad avere un unico Papa legittimo. E tuttavia, da tre anni a questa parte, viviamo con due successori di Pietro viventi tra noi – che non sono in rapporto concorrenziale fra loro, e tuttavia entrambi con una presenza straordinaria! Potremmo aggiungere che lo spirito di Joseph Ratzinger in precedenza ha già segnato in modo decisivo il lungo pontificato di san Giovanni Paolo II, che egli fedelmente servì per quasi un quarto di secolo come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Molti continuano a percepire ancor oggi questa situazione nuova come una sorta di stato d’eccezione voluto dal Cielo.

Ma è già il momento per fare un bilancio del pontificato di Benedetto XVI? In generale, nella storia della Chiesa, solo ex post i papi possono essere giudicati e inquadrati correttamente. E a riprova di questo, Regoli stesso menziona il caso di Gregorio VII, il grande papa riformatore del Medioevo, che alla fine della sua vita morì in esilio a Salerno – da fallito, a giudizio di tanti suoi contemporanei. E tuttavia, proprio Gregorio VII fu colui che, in mezzo alle controversie del suo tempo, plasmò in modo decisivo il volto della Chiesa per le generazioni che seguirono. Tanto più audace, perciò, sembra oggi essere il professor Regoli nel tentare di tracciare già un bilancio del pontificato di Benedetto XVI ancora vivente.

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La quantità di materiale critico che a questo scopo egli ha visionato e analizzato è poderosa e impressionante. Infatti Benedetto XVI è e resta straordinariamente presente anche con i suoi scritti: sia quelli prodotti da papa – i tre libri su Gesù di Nazaret e sedici (!) volumi di Insegnamenti che ci ha consegnato nel suo pontificato – sia come professor Ratzinger o cardinale Ratzinger, le cui opere potrebbero riempire una piccola biblioteca.

E così, quest’opera di Regoli non manca di note a piè di pagina, numerose quanti sono i ricordi che essa risveglia in me. Perché ero presente quando Benedetto XVI, alla fine del suo mandato, depose l’anello piscatorio, come è d’uso all’indomani della morte di un papa, anche se in questo caso egli viveva ancora! Ero presente quando egli, invece, decise di non rinunciare al nome che aveva scelto, come invece aveva fatto papa Celestino V quando il 13 dicembre 1294, a pochi mesi dall’inizio del suo ministero, era ridiventato Pietro dal Morrone.

Perciò, dall’undici febbraio 2013 il ministero papale non è più quello di prima. È e rimane il fondamento della Chiesa cattolica; e tuttavia è un fondamento che Benedetto XVI ha profondamente e durevolmente trasformato nel suo pontificato d’eccezione (Ausnahmepontifikat), rispetto al quale il sobrio cardinale Sodano, reagendo con immediatezza e semplicità subito dopo la sorprendente Dichiarazione di rinuncia, profondamente emozionato e quasi preso dallo smarrimento, aveva esclamato che quella notizia era risuonata fra i cardinali riuniti “come un fulmine a ciel sereno”. Era la mattina di quello stesso giorno in cui, di sera, un fulmine chilometrico con un’incredibile fragore colpì la punta della cupola di San Pietro posta sopra la tomba del Principe degli apostoli. Di rado il cosmo ha accompagnato in modo più drammatico una svolta storica. Ma la mattina di quell’undici febbraio il decano del Collegio cardinalizio Angelo Sodano concluse la sua replica alla Dichiarazione di Benedetto XVI con una prima e analogamente cosmica valutazione del pontificato, quando alla fine disse: “Certo, le stelle nel cielo continueranno sempre a brillare e così brillerà sempre in mezzo a noi la stella del suo pontificato”.

Ugualmente brillante e illuminante è l’esposizione approfondita e ben documentata di don Regoli delle diverse fasi del pontificato. Soprattutto dell’inizio di esso nel conclave dell’aprile del 2005, dal quale Joseph Ratzinger, dopo una delle elezioni più brevi della storia della Chiesa, uscì eletto dopo solo quattro scrutini a seguito di una drammatica lotta tra il cosiddetto “Partito del sale della terra” (“Salt of Earth Party”) intorno ai cardinali López Trujíllo, Ruini, Herranz, Rouco Varela o Medina e il cosiddetto “Gruppo di San Gallo” intorno ai cardinali Danneels, Martini, Silvestrini o Murphy-O’Connor; gruppo che, di recente, lo stesso cardinal Danneels di Bruxelles in modo divertito ha definito come “una specie di mafia-club”. L’elezione era certamente l’esito anche di uno scontro, la cui chiave quasi aveva fornito lo stesso Ratzinger da cardinale decano, nella storica omelia del 18 aprile 2005 in San Pietro; e precisamente lì dove a “una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie” aveva contrapposto un’altra misura: “il Figlio di Dio e vero uomo” come “la misura del vero umanesimo”. Questa parte dell’intelligente analisi di Regoli oggi si legge quasi come un giallo mozzafiato di non troppo tempo fa; mentre invece la “dittatura del relativismo” da tempo si esprime in modo travolgente attraverso i molti canali dei nuovi mezzi di comunicazione che, nel 2005, a stento si potevano immaginare.

Già il nome che il nuovo papa si diede subito dopo la sua elezione rappresentava perciò un programma. Joseph Ratzinger non divenne Giovanni Paolo III, come forse molti si sarebbero augurati. Si riallacciò invece a Benedetto XV – l’inascoltato e sfortunato grande papa della pace degli anni terribili della Prima guerra mondiale – e a san Benedetto di Norcia, patriarca del monachesimo e patrono d’Europa. Potrei comparire come superteste per testimoniare come, negli anni precedenti, mai il cardinale Ratzinger aveva premuto per assurgere al più alto ufficio della Chiesa cattolica.

Già sognava invece vivamente una condizione che gli avrebbe permesso di scrivere in pace e tranquillità alcuni, ultimi libri. Tutti sanno che le cose andarono diversamente. Durante l’elezione, poi, nella Cappella Sistina fui testimone che visse l’elezione come un “vero shock” e provò “turbamento”, e che si sentì “come venire le vertigini” non appena capì che “la mannaia” dell’elezione sarebbe caduta su di lui. Non svelo qui alcun segreto perché fu Benedetto XVI stesso a confessare tutto questo pubblicamente in occasione della prima udienza concessa ai pellegrini venuti dalla Germania. E così non sorprende che fu Benedetto XVI il primo papa che subito dopo la sua elezione invitò i fedeli a pregare per lui, fatto questo che ancora una volta questo libro ci ricorda.

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Regoli tratteggia i diversi anni di ministero in modo affascinante e commovente, rievocando la maestria e la sicurezza con la quale Benedetto XVI esercitò il suo mandato. E che emersero sin da quando, pochi mesi dopo la sua elezione, invitò per una conversazione privata tanto il suo antico, accanito antagonista Hans Küng quanto Oriana Fallaci, l’agnostica e combattiva grande dame di origine ebraica dei mass media laici italiani; oppure quando nominò Werner Arber, evangelico svizzero e Premio Nobel, primo Presidente non cattolico della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. Regoli non sottace l’accusa di scarsa conoscenza degli uomini che spesso è stata mossa al geniale Teologo nei panni del Pescatore; capace di valutare in modo geniale testi e libri difficili e che ciononostante, nel 2010, con franchezza confidò a Peter Seewald quanto trovasse difficili le decisioni sulle persone perché “nessuno può leggere nel cuore dell’altro”. Quanto è vero!

Giustamente Regoli definisce quel 2010 un “anno nero” per il Papa, e precisamente in relazione al tragico incidente mortale occorso a Manuela Camagni, una delle quattro Memores appartenenti alla piccola “Famiglia pontificia”. Posso senz’altro confermarlo. In confronto con tale disgrazia i sensazionalismi mediatici di quegli anni – dal caso del vescovo tradizionalista Williamson sino a una serie di attacchi sempre più malevoli contro il Papa –, pur avendo un certo effetto, non colpirono il cuore del Papa tanto quanto la morte di Manuela, strappata così improvvisamente di mezzo a noi. Benedetto non è stato un “papa attore”, e ancor meno un insensibile “papa automa”; anche sul trono di Pietro è stato ed è rimasto un uomo; ovvero, come direbbe Conrad Ferdinand Meyer, non fu un “libro ingegnoso”, fu “un uomo con le sue contraddizioni”. È così che io stesso l’ho potuto conoscere e apprezzare quotidianamente. E così è rimasto sino a oggi.

Regoli osserva però che dopo l’ultima enciclica, la Caritas in veritate del quattro dicembre 2009, un pontificato dinamico, innovativo e con una forte carica dal punto di vista liturgico, ecumenico e canonistico, è come se improvvisamente apparisse “rallentato”, bloccato, impantanato. Anche se è vero che negli anni successivi il vento contrario aumentò, non posso confermare questo giudizio. I suoi viaggi nel Regno Unito (2010), in Germania e a Erfurt, la città di Lutero (2011), oppure nell’infuocato Medio Oriente – dai preoccupati cristiani del Libano (2012) – sono tutti stati pietre miliari ecumeniche in questi anni recenti. La sua condotta decisa per la soluzione della questione degli abusi è stata e resta un’indicazione decisiva su come procedere. E quando, prima di lui, c’è mai stato un Papa che – insieme al suo gravosissimo compito – abbia scritto anche dei libri su Gesù di Nazaret che forse saranno anch’essi considerati come il suo lascito più importante?

Non è necessario qui che mi soffermi su come egli, che era stato tanto colpito dall’improvvisa morte di Manuela Camagni, più tardi soffrì anche per il tradimento di Paolo Gabriele, membro anche lui della stessa “Famiglia pontificia”.  E tuttavia è bene che io dica una buona volta con tutta chiarezza che Benedetto alla fine non si è dimesso a causa del povero e mal guidato aiutante di camera, oppure a causa delle “ghiottonerie” provenienti dal suo appartamento che nel così detto “affare Vatileaks” circolarono a Roma come moneta falsa ma furono commerciate nel resto del mondo come autentici lingotti d’oro. Nessun traditore o “corvo” o qualsivoglia giornalista avrebbe potuto spingerlo a quella decisione. Quello scandalo era troppo piccolo per una cosa del genere e tanto più grande il ben ponderato passo di millenaria portata storica che Benedetto XVI ha compiuto.

L’esposizione di questi avvenimenti da parte di Regoli merita considerazione anche perché egli non avanza la pretesa di sondare e spiegare completamente quest’ultimo, misterioso passo; non arricchendo così ulteriormente quel pullulare di leggende con ulteriori supposizioni che nulla o quasi hanno a che vedere con la realtà. E io pure, testimone immediato di quel passo spettacolare e inaspettato di Benedetto XVI, devo ammettere che per esso mi viene sempre di nuovo in mente il noto e geniale assioma con il quale nel Medioevo Giovanni Duns Scoto giustificò il divino decreto per l’immacolata concezione della Madre di Dio:

“Decuit, potuit, fecit”.

Vale a dire: era cosa conveniente, perché era ragionevole. Dio poteva, perciò la fece. Io applico l’assioma alla decisione delle dimissioni nel modo seguente: era conveniente, perché Benedetto XVI era consapevole che gli veniva meno la forza necessaria per il gravosissimo ufficio. Poteva farlo, perché già da tempo aveva riflettuto a fondo, dal punto di vista teologico, sulla possibilità di papi emeriti per il futuro. Così lo fece.

Le dimissioni epocali del Papa teologo hanno rappresentato un passo in avanti essenzialmente per il fatto che l’undici febbraio 2013, parlando in latino di fronte ai cardinali sorpresi, egli introdusse nella Chiesa cattolica la nuova istituzione del “Papa emerito”, dichiarando che le sue forze non erano più sufficienti “per esercitare in modo adeguato il ministero petrino”. La parola chiave di quella Dichiarazione è munus petrinum, tradotto – come accade il più delle volte – con “ministero petrino”. E tuttavia, munus, in latino, ha una molteplicità di significati: può voler dire servizio, compito, guida o dono, persino prodigio. Prima e dopo le sue dimissioni Benedetto ha inteso e intende il suo compito come partecipazione a un tale “ministero petrino”. Egli ha lasciato il Soglio pontificio e tuttavia, con il passo dell’11 febbraio 2013, non ha affatto abbandonato questo ministero. Egli ha invece integrato l’ufficio personale con una dimensione collegiale e sinodale, quasi un ministero in comune, come se con questo volesse ribadire ancora una volta l’invito contenuto in quel motto che l’allora Joseph Ratzinger si diede quale arcivescovo di Monaco e Frisinga e che poi ha naturalmente mantenuto quale vescovo di Roma: “cooperatores veritatis”, che significa appunto “cooperatori della verità”. Infatti non è un singolare, ma un plurale, tratto dalla Terza Lettera di Giovanni, nella quale al versetto 8 è scritto: “Noi dobbiamo accogliere queste persone per diventare cooperatori della verità”.

Dall’elezione del suo successore Francesco il 13 marzo 2013 non vi sono dunque due papi, ma de facto un ministero allargato – con un membro attivo e un membro contemplativo. Per questo Benedetto XVI non ha rinunciato né al suo nome, né alla talare bianca. Per questo l’appellativo corretto con il quale rivolgerglisi ancora oggi è “Santità”; e per questo, inoltre, egli non si è ritirato in un monastero isolato, ma all’interno del Vaticano – come se avesse fatto solo un passo di lato per fare spazio al suo successore e a una nuova tappa nella storia del papato che egli, con quel passo, ha arricchito con la “centrale” della sua preghiera e della sua compassione posta nei Giardini vaticani.

È stato “il passo meno atteso nel cattolicesimo contemporaneo”, scrive Regoli, e tuttavia una possibilità sulla quale il cardinale Ratzinger aveva riflettuto pubblicamente già il 10 agosto 1978 a Monaco di Baviera in un’omelia in occasione della morte di Paolo VI. Trentacinque anni dopo egli non ha abbandonato l’ufficio di Pietro – cosa che gli sarebbe stata del tutto impossibile a seguito della sua accettazione irrevocabile dell’ufficio nell’aprile 2005. Con un atto di straordinaria audacia egli ha invece rinnovato quest’ufficio (anche contro l’opinione di consiglieri ben intenzionati e senza dubbio competenti) e con un ultimo sforzo lo ha potenziato (come spero). Questo certo lo potrà dimostrare unicamente la storia. Ma nella storia della Chiesa resterà che nell’anno 2013 il celebre Teologo sul Soglio di Pietro è diventato il primo “Papa emeritus” della storia. Da allora il suo ruolo – mi permetto ripeterlo ancora una volta – è del tutto diverso da quello, ad esempio, del santo papa Celestino V, che dopo le sue dimissioni nel 1294 avrebbe voluto ritornare eremita, divenendo invece prigioniero del suo successore Bonifacio VIII (al quale oggi dobbiamo nella Chiesa l’istituzione degli anni giubilari). Un passo come quello compiuto da Benedetto XVI fino ad oggi non c’era appunto mai stato. Per questo non è sorprendente che da taluni sia stato percepito come rivoluzionario, o al contrario come assolutamente conforme al Vangelo; mentre altri ancora vedono in questo modo il papato secolarizzato come mai prima, e con ciò più collegiale e funzionale o anche semplicemente più umano e meno sacrale. E altri ancora sono dell’opinione che Benedetto XVI, con questo passo, abbia quasi – parlando in termini teologici e storico-critici – demitizzato il papato.

Nella sua panoramica del pontificato, Regoli espone tutto questo chiaramente come mai nessuno prima. La parte forse più commovente della lettura è stata per me il passo dove, in una lunga citazione, egli ricorda l’ultima udienza generale di Benedetto XVI il ventisette febbraio 2013 quando, sotto un indimenticabile cielo limpido e terso, il Papa che di lì a poco si sarebbe dimesso riassunse il suo pontificato così:

“E’ stato un tratto di cammino della Chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili; mi sono sentito come san Pietro con gli Apostoli nella barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate e il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare”.

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Devo ammettere che, a rileggere queste parole, quasi potrebbero ancora venirmi le lacrime agli occhi, e tanto più per avere io visto di persona e da vicino quanto incondizionata, per sé e per il suo ministero, sia stata l’adesione di Papa Benedetto alle parole di san Benedetto, per cui “nulla è da anteporre all’amore di Cristo”, nihil amori Christi praeponere, come è detto nella regola tramandataci da Papa Gregorio Magno. Ne fui allora testimone, ma tuttora rimango affascinato dalla precisione di quell’ultima analisi in Piazza San Pietro che suonava così poetica, ma era nient’altro che profetica. Infatti sono parole che oggi anche Papa Francesco immediatamente potrebbe sottoscrivere e sottoscriverebbe senz’altro. Non ai papi ma a Cristo, al Signore stesso e a nessun altro appartiene la navicella di Pietro frustata dalle onde del mare in tempesta, quando sempre di nuovo temiamo che il Signore dorma e che non gli importi delle nostre necessità, mentre gli basta una sola parola per far cessare ogni tempesta; quando invece a farci cadere di continuo nel panico, più che le alte onde e l’ululato del vento, sono la nostra incredulità, la nostra poca fede e la nostra impazienza.

Così questo libro getta ancora una volta uno sguardo consolante sulla pacifica imperturbabilità e serenità di Benedetto XVI, al timone della barca di Pietro negli anni drammatici 2005-2013.