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Dalla paura all'integrazione, 25 anni di accoglienza ai migranti per la Chiesa in Italia

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Le paure si possono vincere solo nell’incontro con l’altro e nell’intrecciare una relazione. È un cammino esigente e a volte faticoso a cui le nostre comunità non possono sottrarsi, ne va della nostra testimonianza evangelica”.

E’ racchiuso in questa frase il senso del documento che la Commissione Episcopale per le Migrazioni della CEI ha indirizzato alle comunità cristiane:“Comunità accoglienti, uscire dalla paura”. Il documento arriva in occasione del 25° anniversario del precedente, “Ero forestiero e mi avete ospitato” (1993).

“Si tratta- si legge-  di riconoscere l’altro nella sua singolarità, dignità, valore umano inestimabile, di accettarne la libertà; significa riconoscere la sua peculiarità (di sesso, di età, di religione, di cultura,…) e desiderare di fargli posto, di accettarlo. Tutto ciò senza rinnegare la nostra cultura e le nostre tradizioni, ma riconoscendo che ve ne sono altre ugualmente degne. Scopriremo una ricchezza inaspettata: occhi nuovi per guardare realtà note; tradizioni e abitudini diverse che aiutano a valutare le nostre; sofferenze patite che ci rivelano quanto accade lontano da noi”.

Insomma dalla paura, all’accoglienza e alla relazione questo il passaggio necessario per arrivare alla  intregrazione che “è un processo che non assimila, non omologa, ma riconosce e valorizza le differenze; che ha come obiettivo la formazione di società plurali in cui vi è riconoscimento dei diritti, in cui è permessa la partecipazione attiva di tutti alla vita economica, produttiva, sociale, culturale e politica, avviando processi di cittadinanza e non soltanto di mera ospitalità”.

E il processo inizia, come si legge nel documento, “con un atto di umiltà e di ascolto di ciò che l’immigrazione, con i suoi volti, le sue storie, le sue domande dice a noi, comunità cristiane” e quindi “prima ancora di “aprire” o “chiudere” gli occhi davanti allo straniero è necessario interrogarsi sulle cause che lo muovono, anche se – e forse proprio perché – oggi appare più difficile che mai riuscire a distinguere quanti fuggono da guerre e persecuzioni da quanti sono mossi dalla fame o dai cambiamenti climatici”.

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