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Il terremoto dopo un anno con il racconto fotografico di Matthias Canapini

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Si chiama ‘Oltre il sisma’ ed è il progetto che sta portando il giovane fotografo fanese Matthias Canapini (1992) a camminare sui Monti Sibillini, nei borghi martoriati dal terremoto, tra le comunità dei crateri e nei piccoli paesi ai margini delle zone rosse per documentare “l’umanità ferita dal sisma di agosto ed ottobre, per raccontare che dietro i numeri, le macerie, le cravatte e i bei discorsi c’è Stefano, ci sono Federica, Bruno, Alice e il piccolo Ernesto”. Il fotografo ha iniziato il 24 agosto 2016 ‘il viaggio speciale che mi sta riportando a casa’: “Al terzo giorno ho smesso di fotografare macerie e ho iniziato a raccontare storie, lentamente, immortalando stralci di una umanità resistente e solidale: i piccoli gesti di postini, allevatori, studenti, turisti, operai. Una processione religiosa sull’altopiano di Forca Canapine o il saluto della buonanotte tra Erziana e Assunta, donne sfollate nel borgo di Bolognola”.

Matthias Canapini si occupa di reportage foto giornalistici muovendosi come freelance appoggiandosi a ONG nazionali ed internazionali. Ha viaggiato nei Balcani, Turchia, Caucaso, Est Europa e Siria, documentando tematiche diverse tra loro come le adozioni a Pristina, le proteste in Bulgaria, le mine antiuomo in Bosnia e Armenia o i ragazzi di strada a Bucarest. Durante gli ultimi viaggi è entrato due volte in Siria per documentare le condizioni di alcuni campi sfollati siti a qualche chilometro dal confine. Colpito dalle sue fotografie viste in facebook l’ho contattato e gli ho chiesto di raccontare come è nato il progetto ‘Oltre il sisma’: “Il 24 agosto, giorno della scossa ad Amatrice, mi trovavo in Lucania per raccogliere testimonianze sul mondo rurale del Sud Italia. Appena giunta la notizia, io ed un paio di amici abbiamo deciso di partire immediatamente per le zone del cratere. Da quel momento, legandomi profondamente alle persone incontrate, ho deciso di tornare nelle aree colpite ogni due settimane, per seguire gli sviluppi e il destino degli sfollati, raccogliere le testimonianze di operai, casalinghe, allevatori, studenti, turisti e raccontare con taccuino e macchina fotografica l’umanità resistente di Arquata, Pescara sul Tronto, Acquasanta Terme ... poi le scosse di ottobre, un nuovo epicentro, la rete solidale sempre più attiva. Il progetto è cominciato cosi, innamorandomi lentamente di tutta quell’umanità più forte del dramma. Viaggio in quei territori prevalentemente a piedi o in autostop, zaino in spalla. Per tre anni sono andato alla ricerca di guerre (passate e presenti) nel mondo, dalla Siria al Vietnam, ma tornando alle radici ho inteso che a volte ci sono guerre silenziose che si combattono senza l’ausilio di armi, né con cannoni né con eserciti in campo. Drammi che si consumano sotto casa, passo dopo passo, come un tarlo che scava nel legno cavilloso. Credo che un terremoto ha inizio nel momento in cui finisce”.

Quale sentimento si prova viaggiando nei paesi distrutti dal terremoto?

“Viaggiando solo tra boschi, borghi vuoti e distrutti, pascoli cotti dal sole e sentieri di montagna, non si può far altro che scavarsi dentro. I sentimenti sono molteplici, da una parte sbigottimento, rabbia, delusione, tristezza, ma anche speranza, ironia, fede, felicità incontenibile. Ti rendi conto che nell’essere umano è insita un’attitudine incredibile e resiliente chiamata resistenza. Una resistenza umana che torna comunità, impregnandosi dell’antico rito della condivisione. Un’umanità forte, superiore ai drammi del nostro tempo. L’ho vista in tanti altri angoli di mondo, ma tornando alle radici, scopri forse che non c’è cosa più bella di raccontare e viaggiare tra la propria gente. Un reportage simile l’ho realizzato in Nepal a sei mesi esatti dal violento terremoto del 25 aprile 2015. Sembra ora di rivivere il tutto in presa diretta”.

Come è riuscito a raccontare il terremoto?

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“Non so ancora se sto riuscendo a raccontare il terremoto. In programma c’è un libro e una mostra itinerante, ma per ora mi sto affidando semplicemente alla gente del posto. Scendo dal treno, sistemo lo zaino e comincio a camminare. Che incontro paesini collassati, mucche svogliate o piccole comunità resistenti l'occhio non cambia: annoto, osservo, riporto a casa, tentando di perdermi tra fiumi e alberi, lasciando le zavorre e facendo condurmi nel cratere da Stefano, Federica, Bruno, Alice, il piccolo Ernesto e tanti altri. Sicuramente è interessante e basilare raccontare più sfaccettature dell’evento, da colui che ha perso tutto e vive ancora in roulotte, a quello che non gli è cambiato nulla, terremoto o no. Non puntare sulla pietà ma sulla verità della situazione”.

Ad un anno dal terremoto come far rinascere una comunità resiliente?

“Tessere una rete tra le varie comunità che con tenacia resistono è basilare. Alle spalle c’è un lavoro collettivo, un intero popolo italiano che da mesi si sporca le mani aiutando famiglie e individui rimasti senza casa, affetti, lavoro. A Pievebovigliana ho incontrato Luigi e Oliva, proprietari dell’ormai distrutto Varnelli Bar. A distanza di mesi si ostinano a rimanere in paese, tenendo aperto il bar trapiantato a ventinove passi di distanza dal loro vecchio esercizio. Perché tutto ciò? Perché se anche l’ultimo bar del paese dovesse chiudere, la comunità di anziani morirà, e senza memoria non c’è futuro, legame, amore per la terra. Pazienza e legami umani. Non lasciare sole queste persone ma tornare a vivere quei luoghi bellissimi, ripopolare in ogni modo possibile i borghi andati distrutti, rivalorizzare con ogni evento possibile le nostre ricchezze dell’entroterra. Ma al di là dei bei discorsi, sul lato pragmatico, ripeto, si sono create tante reti solidali, microcrediti, l’aiuto vero è venuto dal basso, dalle gente comune stanca di false promesse”.

Quale è stata la storia che più l’ha colpita?

“Ogni storia ascoltata mantiene una sua profonda particolarità, tantissimi aneddoti difficili da dimenticare. Tutti racchiudono un’energia e una voglia di rialzarsi che ha dell’incredibile. Un gruppo di giovani incontrati sull’altopiano di Forca Canapine, memori di una vecchia tradizione ereditata dai loro padri, si incontrano ogni anno in un prato di alta montagna per giocare alla morra. L’agrinido ‘La quercia della memoria’ di San Ginesio, andato distrutto con le scosse di ottobre, da settembre riaprirà i battenti e avrà il numero più corposo di ‘alunni’ da quando è stato fondato, guarda caso proprio nell’anno del terremoto, a dimostrare l’affiatamento ed il sostegno della comunità. Più che una storia, forse è la storia in sé. La storia che stanno riscrivendo queste persone, con umiltà e dedizione. Il mio ultimo pellegrinaggio si è snodato da Ussita a Montegallo, da Amandola a Preci, attraversando a piedi o in autostop i Sibillini da nord a sud. Ho in programma di viaggiare in queste zone fino al prossimo inverno quando andrò a vivere in un rifugio di montagna, a Sefro. Sicuramente avrò l’occasione di ampliare il bagaglio di memorie e ascoltare nuove storie! L’intento, ripeto, è farci un libro, accompagnato dagli scatti che sto facendo lungo la strada. Sono scatti che dal terzo giorno in poi hanno abbandonato le macerie, preferendo raccontare una partita a carte tra gli anziani, una bambina in bici, un allevatore sui monti: la rinascita dell’uomo, tutto il bello che sopravvive anche nel dramma”.