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La Chiesa nelle zone alluvionate. “Vicini alla gente, nonostante tutto”

Il vescovo Mario Toso della diocesi di Faenza – Modigliana spiega cosa sta facendo la Chiesa nelle zone alluvionate

Papa Francesco, CEI | Papa Francesco con i vescovi delle zone alluvionate | Vatican Media / ACI Group Papa Francesco, CEI | Papa Francesco con i vescovi delle zone alluvionate | Vatican Media / ACI Group

C’è stata la prima alluvione, che è stata terribile. Ma poi, dopo appena sei giorni c’è stata anche la seconda alluvione, che ha travolto di nuovo il poco che si era salvato, lasciando le persone nello scoramento. Il racconto del vescovo di Faenza – Modigliana Mario Toso è quello di una terra messa in ginocchio da due esondazioni del fiume che hanno allagato interi quartieri, impraticabili. Il vescovo Toso, però, racconta anche dell’eroismo dei sacerdoti della sua diocesi, della Caritas che continua a distribuire pasti a chi resta senza casa, e punta il dito su una mala gestione a causa della quale i letti dei fiumi non sono stati ripuliti, così da creare il disastro. C’è una lezione da trarre, ma c’è prima di tutto da ricostruire.

Il 22 maggio, i vescovi delle zone alluvionate hanno salutato Papa Francesco. E prima dell’inizio dell’Assemblea Generale, la commissione Affari Sociali della Conferenza Episcopale Italiana si era riunita. Dal fondo CEI per le emergenze arriverà un milione di euro, le donazioni alla Caritas locale sono aumentate dopo l’appello del vescovo Toso. Ma i soldi, argomenta il vescovo, “sono poca cosa di fronte a chi ha perso casa. Noi non abbiamo le risorse per ricostruire tutto, ma siamo chiamati ad integrare, a stare vicino alla popolazione. Non abbiamo nemmeno i mezzi della protezione civile”.

Eppure i sacerdoti sono sul territorio con un eroismo quasi stoico. C’è, a Faenza, una “Opera Assistenza di Malati Impediti”, ed è il parroco che si sta prendendo cura di questa struttura, abbandonata dalle istituzioni e anche dalla protezione civile.

A Faenza, il seminario, racconta il vescovo, è diventato “una cittadella della solidarietà. Ha dato ospitalità alle Clarisse di Monte Paolo, clarisse che erano prima a Faenza e che ora sono nel convento molto amato dai francescani perché fu il convento dove fu Sant’Antonio di Padova e perché nel tragitto da quel convento a Forlì fu chiesto a Sant’Antonio di predicare e se ne scoprì il talento”.

Oltre alle Clarisse, ci sono delle famiglie, inclusa una coppia di sposi che è davvero in procinto di avere un bambino, e 22 minori non accompagnati, che “non potevano essere messi in ricettacoli generici”, e sono posti in alcune aule di studio.

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“Le piogge sono cessate – racconta il vescovo Toso – ma quello che resta è drammatico. Le strade sono quasi impraticabili, perché, laddove sono asciutte, vi sono state accumulate suppellettili e materiali tratti fuori dagli scantinati e dai piani invasi dalle acque limacciose”.

Di certo, la situazione è migliorata, ma ci sono state zone dove “il livello dell’acqua era di sette metri, quanto due piani di un palazzo”.

Il vescovo spiega che il disastro è avvenuto perché “il fiume, di fronte alle piogge copiose, si è ingrossato, arrivando a sfondare le rive non rinforzate, che erano poco coltivate e non liberati dagli alberi, mentre il fiume Marzeno è confluito aumentando il volume dell’acqua. Il disastro è dovuto alla grande quantità dell’acqua caduta in maniera straordinaria, ma è dovuta anche al fatto che l’alveo del fiume non è stato pulito, i soldi previsti per rivedere i canali di scolo e il deflusso dell’acqua non sono stati adoperati. La Regione li aveva e una parte li ha restituiti”.

La morale che se ne ricava è che “in sostanza dobbiamo curare il creato, non lo dobbiamo sfruttare per l’immediata utilità senza prendercene cura”.

E dire, aggiunge, che il disastro poteva essere prevedibile. Il vescovo è andato a sfogliare le copie dello storico giornale della diocesi, Il Piccolo, e in particolare le cronache dell’alluvione del 1940, constatando che “i più grandi smottamenti sono accaduti a Modigliana e in altre colline intorno, negli stessi posti in cui erano accadute in passato,  a testimonianza che non si era fatta attenzione”.

Il vescovo Toso sostiene che “è una grazia che i morti non siano stati molti” (a Faenza solo 3), ma guarda anche alle corse pratiche da fare in futuro. “Finita l’emergenza acqua – dice – rimane da cavare ettolitri di acqua dagli scantinati”.

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Si è comunque attivata la macchina della solidarietà. Ad esempio, la Caritas di Senigallia, racconta il vescovo, ha “inviato un camion pieno di aiuti più vari, comprese le macchine per aspirare l’acqua ed asciugare i muri, perché i muri bagnati dall’acqua di una alluvione rimangono umidi per anni e anni”.

C’è anche un dato positivo, ed è “la mobilitazione dei giovani. I giovani non sono nascosti, lontani, ma sono vivi, presenti. Si sono costituiti in squadre, sono andati a spalare, a pulire”.

Ma “le persone che provengono da queste abitazioni hanno gli occhi tristi, sentono la fragilità, a volte anche la solitudine”, e ci sono i giovani che “una volta erano baldanzosi, e che oggi sembrano spaesati”.

Il danno riguarda anche la produttività, a partire dalla produttività agricola, completamente compromessa. “È stato calcolato – racconta il vescovo Toso – che ci vorranno almeno cinque anni prima che le nuove piantagioni ridiano frutti. E, inoltre, la popolazione che lavora la terra è sempre più anziana, e non c’è un sufficiente ricambio generazionale”.

Quelli che si prospettano sono tempi duri. Ma vescovo e sacerdoti della diocesi saranno chiamati a dare speranza, sperando che si possa guarire il trauma e si possa cominciare a ricostruire.