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La storia economica? Si può leggere con le lenti dell'agape, dice Luigino Bruni

Luigino Bruni  |  | pd Luigino Bruni | | pd

Agape, economia, bene comune. Ne ha parlato a Macerata Luigino Bruni,docente di economia politica alla Lumsa di Roma, in un incontro organizzato dalla diocesi.

Anche l’economia è linguaggio e come tale ha un suo lessico e una sua grammatica. Niente di strano fin qui, se non che questa grammatica e le parole che la riempiono, tra le quali innovazione, efficienza, meritocrazia, stanno invadendo ogni altro campo dell’esperienza umana, con la conseguenza di impoverire ogni grammatica e cultura alternativa.

Il risultato di questo processo, che testimonia una distorsione semantica potente, è l’occupazione del nostro tempo da parte della cultura delle grandi imprese, che ormai descrive tutte le storie individuali e collettive, e produce una nuova ideologia che, a differenza di quanto è avvenuto nel XX secolo ‘non incontra vere resistenze, semplicemente perché presentata come tecnica, strumento eticamente neutrale, e in quanto tale di applicazione universale’. In questo senso la vita buona, cioè il benessere, comporta che anche l’economia civile ha una sua dimensione fondante nella gratuità, che riporta all’esperienza agapica. Perché - ha affermato Bruni - "l’agape è una forma di amore che fa la sua comparsa proprio con il cristianesimo”.  

Ma quali rapporti ci sono tra l’agape, l’economia ed il bene comune?

La tradizione italiana della ‘pubblica felicità’ concepiva l’economia in vista del bene comune. Il bene pubblico, che corrisponde all’inglese ‘common’ (bene collettivo) è un rapporto diretto tra gli individui e il bene consumato. Il bene comune è esattamente il contrario: è un rapporto diretto tra persone, mediato dall’uso dei beni in comune. Nella Dottrina Sociale della Chiesa il bene comune è inteso come la ‘dimensione sociale e comunitaria del bene morale’, e per questo è ‘indivisibile perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo’, come afferma il n^ 164 del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa. Nella definizione moderna di ‘bene comune’ l’agape è stata accantonata, relegandola, da una parte, alla sfera privata della famiglia; dall’altra è stata affidata allo Stato attraverso il welfare state, oppure, nella cultura anglosassone, alla filantropia. Due forme pubbliche che hanno raccolto solo una parte della ricchezza della dimensione dell’amore agapico. Per questo sono convinto che una sfida della civiltà è quella di riportare la forma dell’agape al centro della vita della città.

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Quindi la storia economica può essere letta in versione agapica?

La storia dell’economia non è solo storia di contratti, né solo storia di intervento pubblico e di azioni filantropiche. La storia che va dai Monti di Pietà dei francescani nel Medioevo all’economia di comunione ed al commercio equo e solidale di oggi non può essere compreso nella sua pienezza, se non si prende in considerazione l’agape che è alla base della loro nascita e sviluppo. In questo senso credo che vada rivisto in funzione agapico anche il principio di sussidiarietà, finora visto solo in versione ‘verticale’, cioè nel rapporto tra i diversi livelli della pubblica amministrazione. Credo necessaria una nuova declinazione di questo principio fondamentale della vita civile: non faccia il contratto ciò che può fare l’amicizia, e non faccia l’amicizia ciò che può fare l’agape. In questo contesto è bene ricordare un giurista aquilano discepolo di Antonio Genovesi, Giacinto Dragonetti, che nell’introduzione del volume ‘Delle virtù e dei premi’ (1766) scrisse: ‘Gli uomini hanno fatto milioni di leggi per punire i delitti, e non ne hanno stabilita pur una per premiare le virtù’. Per Dragonetti la virtù è associata alla ricerca del bene pubblico. Perciò l’agape è la pietra angolare della civitas.

Quindi l’agape è collegata alla felicità, che è il fondamento dell’ ‘economia civile’?

L’economia civile è un’antica tradizione italiana, che ha la sua origine nell’umanesimo civile. Nel ‘400 italiano le regioni della Toscana, Umbria e Marche furono molto importanti per lo sviluppo economico e commerciale; poi nel secolo XVIII a Napoli ci fu una nuova primavera con il pensiero economico di Antonio Genovesi, che diceva che lo scopo ultimo dell’economia non è la ricchezza, ma la felicità pubblica, cioè la crescita di un Paese è importante solo ed in quanto migliora il benessere delle persone. Se il PIL (Prodotto Interno Lordo) che cresce dovesse impoverirci, perché si inquina l’ambiente o i rapporti interpersonali peggiorano, l’economia -direbbe Genovesi- fa del male, perché l’economia è buona quando rende la qualità della vita migliore. Quindi oggi l’economia civile sta tornando di moda in un mondo di scarsità di beni ambientali e di beni sociali come il nostro, dove abbiamo molti merci e pochi rapporti. Questa antica tradizione italiana è molto importante e molto attuale. Con altri autori la sto rilanciando nella prassi e nella teoria economica contemporanea.

Quindi la felicità pubblica implica il concetto del dono... 

Il dono con le sue ambivalenze in quanto è un’esperienza complessa, in quanto il dono in un certo senso obbliga. Tale concetto bisogna metterlo in conto in una civiltà che non fa più doni o che non li vuole più accettare, purchè non siano gadget od offerte nei saldi; ma nessuno vuole più il dono vero, perché ha paura di esporsi all’ altro, è una civiltà che si intristisce. Il grande segnale di qualcosa che non funziona oggi è la mancanza di gioia; è la mancanza di quella gioia di vivere che è tipica di un mondo dove la dimensione del rapporto con l’altro era importante. Quindi sono ottimista: andiamo avanti, ce la faremo.

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In tutto questo cosa c’entra l’economia di comunione?

C’entra in quanto è una parte dell’economia civile, perché punta alla felicità pubblica; si occupa di quelle parole chiave che hanno fatto l’umanesimo cristiano e civile. E’ un progetto importante ed innovativo. L' Economia di Comunione è un progetto di imprenditori, lavoratori, dirigenti, consumatori, risparmiatori, cittadini, studiosi, operatori economici, lanciato da Chiara Lubich nel Maggio del 1991 a San Paolo in Brasile, allo scopo di costruire e mostrare una società umana dove, ad imitazione della prima comunità di Gerusalemme, ‘nessuno tra loro è indigente’. Le imprese sono l’asse portante del progetto. Queste si impegnano liberamente a mettere in comunione i profitti secondo tre scopi e con pari attenzione: aiutare le persone svantaggiate, creando nuovi posti di lavoro e sovvenendo ai bisogni di prima necessità, dando vita a progetti di sviluppo iniziando da quanti condividono lo spirito che anima il progetto; sviluppare l'impresa, che deve restare efficiente e competitiva pur se aperta alla gratuità; diffondere la ‘cultura del dare’ e della reciprocità. L’Economia di Comunione nasce da una spiritualità di comunione, vissuta nella vita civile; coniuga efficienza e solidarietà; punta sulla forza della cultura del dare per cambiare i comportamenti economici; non considera i poveri principalmente come un problema, ma come una risorsa preziosa.