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Le dichiarazioni anticipate di trattamento: un delicato confine tra il diritto e l'etica

Papa Francesco e i malati | Papa Francesco incontra i malati al termine di una udienza generale a piazza San Pietro  | Daniel Ibanez / ACI Group Papa Francesco e i malati | Papa Francesco incontra i malati al termine di una udienza generale a piazza San Pietro | Daniel Ibanez / ACI Group

Le dichiarazioni anticipate di trattamento sono uno degli argomenti più dibattuti  negli ultimi dieci anni. Ciò in quanto il tema non tocca solamente la sfera etica e morale dell'uomo ma anche quella giuridica, chiamata a contenere in una forma possibile e legittima la difesa di quella che si chiama libera e dignitosa esistenza. 

Queste manifestazioni di volontà indicano la scelta ed il protocollo che un soggetto, trovandosi in una situazione di impossibilità, fisica o psicologica, manifesti al fine di poter provvedere alla propria salute. Tali atti a contenuto etico e morale ma in forma giuridica sono del tutto disomogenei fra loro potendo prevedere differenti tipologie di trattamento, quali ad esempio la terapia del dolore, la donazione di organi che potrebbero essere trapiantati in altri soggetti, l'accanimento terapeutico, la nutrizione artificiale per particolari pazienti, affetti da una qualche patologia specifica. Ciò sta ad indicare come tali forme di autodeterminazione toccano, con il proprio divenire, più campi di applicazione. 

Storicamente la questione è venuta alla luce dalla seconda metà degli anni ottanta del secolo scorso, in quanto si sono manifestate differenti situazioni che toccavano tali problematiche.

Il riferimento normativo per l'ordinamento giuridico italiano in relazione a queste è contenuto esplicitamente nell'articolo 32 della Carta costituzionale. La norma recita che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Ed in coordinato è utile leggere anche l'articolo 2 della C.E.D.U il quale afferma che “il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge”. Per il principio di legalità sostanziale, presente in ogni ordinamento giuridico, alla base di qualsiasi trattamento, vi dev'essere un'esplicita disposizione di legge che lo preveda in funzione della salvaguardia dell'interesse generale.

Su tali questioni, il Magistero della Chiesa si è da sempre pronunciato, manifestando la difesa della vita in quanto atto creativo e libero. Pertanto sacro ed inviolabile. L'esistenza è sempre un'espressione disposta per assoluta libertà e l'uomo è tenuto, in ordine a ciò, alla difesa di un dono tanto grande. 

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Già l'articolo 2 della Carta costituzionale afferma che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Chiarito ciò, il pensiero giuridico sulla questione, ha dato adito a tendenze opposte. Alcuni giuristi hanno affermato la compiutezza di un trattamento di interruzione alla continuità dell'esistenza in quanto, in alcune ipotesi, è necessario analizzare le facoltà esclusivamente, celebrali del soggetto le quali se mancano inficiano la  possibilità nella durata dell'arco vitale. 

Un'altra impostazione, invece, ha affermato la continuità dell'esistenza  in quanto le facoltà celebrali ed intellettive rappresentano solo una parte del contenuto caratterizzante la persona, intesa nella propria integralità, ma non sono il solo ed esclusivo, presupposto fondante l'esistenza. 

La persona umana va considerata in tutta la complessa struttura ontologica della propria personale dimensione composta di intelligenza, affettività, requisisti biologici e fisici. 

L'ordinamento giuridico italiano, con la L.219 del 22 dicembre 2017, ha disegnato le linee guida in tale settore. La citata fonte ha stabilito che è il soggetto il titolare effettivo del diritto di stabilire quali trattamenti prevedere o meno nel caso in cui si trovi in un delicato e perdurante stato psico-fisico. In tali ipotesi, manifestando il proprio consenso informato, ai sensi dell'articolo 1322 c.c, può esercitare il proprio diritto alla autodeterminazione in relazione al supposto trattamento. Qualora ciò non fosse possibile, la responsabilità è affidata ad un parente oppure ad un amministratore di sostegno, nominato per tali incombenze, dal Tribunale. 

Ma vediamo qual'è la situazione giuridica negli altri Stati.

Il numero preminente degli Stati Uniti con l'Uniform Rights of the Terminally Act  recepisce l'impostazione dell'autodeterminazione della persona la quale può esprimere il proprio consenso informato, anche tramite una registrazione video (se non vi è altra possibilità  di esternare la volontà). Nel caso in cui ciò non sia più possibile si farà ricorso all'istituto di un amministratore di sostegno, il quale sarà legittimato a dichiarare l'effettiva scelta del soggetto.

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In Germania, è in vigore una legge (dal 2009) che regola le ipotesi di testamento biologico e la possibilità del soggetto di autodeterminarsi. Ma la persona, in tale percorso, è coadiuvata da un amministratore di sostegno e dal proprio medico curante, i quali consentono di rendere effettiva la volontà del soggetto amministrato. In assenza di questa, la decisione appartiene alla competenza degli organi giurisdizionali.

Nei Paesi Bassi invece è possibile per il paziente emettere una dichiarazione di trattamento, anche in ordine ad un evento interruttivo dell'esistenza. Tale richiesta è subordinata alla valutazione di due medici (dei quali uno, terzo ed imparziale, nella vicenda) i quali sono chiamati ad esporre un giudizio sulle possibilità in ordine alla vita del paziente.

Nel Regno Unito, sulla scorta del Mental Capacity Act (2005) la legge stabilisce  l'applicazione del criterio dell'autodeterminazione e di un amministratore di sostegno.  Però, nel caso in cui ciò non fosse possibile la scelta potrebbe essere presa, previo parere, discrezionalmente vincolante, dell'equipe medica. 

Un caso simile fu deciso dalla Suprema Corte con la sentenza Blond (1993). In tal caso, il provvedimento stabili che qualora i medici ritenessero che i trattamenti da eseguire potessero risultare inutili, all'effettivo miglioramento delle condizioni di vita del paziente, l'equipe sanitaria non sarebbe stata obbligata a continuare le  somministrazione, lasciando la possibilità di scelta alla valutazione all'organo ospedaliero. Quindi lo staff medico, sarà chiamato ad effettuare una diagnosi prognostica, basata sul parametro del maggior bene del paziente.

In conclusione, dalle brevi note esposte è doveroso osservare come tale questione così delicata, integri sia le conoscenze etico-morali come quelle più strettamente giuridiche, per trovare una risposta adeguata. Ciò in quanto il dolore e la sofferenza in tali ipotesi riguardano il labile confine fra il diritto alla vita ed il diritto per la vita. E la scelta tocca non solo la difesa degli interessi del singolo ma soprattutto a quelli dell'intera comunità, nella quale la persona è chiamata ad operare.