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Padre Rupert Mayer e Giovanni Palatucci: due martiri alla luce delle fonti storiche

La tomba di Padre Mayer  |  | pubblico dominio La tomba di Padre Mayer | | pubblico dominio

Il problema del male è presente come un leit motiv nella storia dell'umanità. Questo perché il tema tocca da vicino l'esistenza dell'uomo. Filosofi ed antropologi hanno cercato di offrire delle risposte all'arduo problema ma spesso tali tentativi sono caduti nel vuoto di sterili affermazioni tautologiche.

Nella realtà storica e sociale di oggi come di ieri queste domande esistevano e continuavano a lasciare un posto vuoto. Però, alle volte, la risposta è stata la testimonianza.

Quella vera, autentica che lascia un segno di luce anche a distanza di oltre settant'anni.

E di questo ne sono esempi il padre Rupert Mayer S.J. (1876-1945) ed il vice questore di Fiume, Giovanni Palatucci (1909-1945).

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Due figure che sembrano molto distanti fra di loro ma che, in realtà, sono molto simili.

Padre Rupert Mayer è stato un sacerdote gesuita, cappellano militare, croce di guerra al valor militare, ottimo sportivo, seppur mutilato a causa di una ferita, durante la Prima guerra mondiale, che lo costrinse a camminare, per tutta la vita, con un bastone.

Questo religioso si spese sempre per la vita dei più bisognosi, tanto che si prodigò attivamente per la Charitas chiedendo l'elemosina anche di persona per portare aiuto a coloro che bussavano alla sua porta. Ciò era vietato dal regime nazista, ma padre Mayer andò oltre, continuando nella sua benefica opera. Con una volontà indomita e coraggiosa si oppose al comunismo ed al nazismo, in quanto credeva nella libertà dello spirito ma soprattutto in Dio.

Dalle fonti storiche raccolte, sulla sua vita, il padre Molinari S.J. osserva che “il 16 maggio 1937 gli fu notificato il divieto di parlare; ma padre Mayer continuò a predicare”

Ed ancora: a causa di ciò fu disposto il suo arresto ed il citato autore, raccogliendo uno scritto del gesuita nella sua biografia riporta che: “nel pomeriggio del 5 giugno 1937 vennero due funzionari della Gestapo e dissero che mi dovevano arrestare. Mi condussero nella cosi detta cella d'onore. Era piccola, ma nuova e pulita .Ero felice perché mi avevano imprigionato per la fede”.

Incarcerato più volte, nel 1938 fu deportato nel campo di concentramento di Landeberg e di Sachsenausen, ma a causa di importanti motivi di salute venne poi internato nel monastero di Ettal, fino alla fine della guerra. Uscito devastato nel corpo, morì mentre predicava nel 1945.

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Le sue ultime parole furono:”Il Signore... il Signore.

Dalle citate ricerche storiche è utile osservare come quest'uomo non manifestò solo del coraggio ma qualcosa di più che va ben oltre il semplice atto e questo fu il suo amore a Dio.

Del resto, il Cristo nella notte del Getsemani non ha voluto solcare il terreno della grandezza umana, non ha alzato il metro dell'eroismo, ma ha sofferto e sperimentato, sul suo corpo innocente, l'abbassamento dell'uomo difronte al male. Il peso morale e fisico della sofferenza lo ha assunto su di se, in funzione dell'atto redentivo. Ha lasciato all'umanità sofferente qualcosa di più che un mirabile esempio, ha donato la sua esistenza, in riscatto dell'indifferenza dell'uomo.

E questo è il frutto dell'amore di un Padre nei confronti dei propri figli.

Padre Mayer si è uniformato non ad una volontà di distruzione, bensì ad un iride di luce sul mondo. La sua spiritualità, quella della Compagnia di Gesù, invita l'uomo a saper discernere la volontà di Dio, nella propria esistenza. Tale atteggiamento, frutto di preghiera e riflessione, ha condotto il religioso a dare al suo atto un valore meta terreno, in quanto teologico e spirituale, opponendosi al regime vigente in quel periodo storico. Del resto Sant'Ignazio di Loyola nei suoi Esercizi Spirituali scrive: “l'uomo è creato per lodare e servire Dio nostro Signore e mediante questo salvare la propria anima”.

Padre Mayer S.j è stato beatificato da Giovanni Paolo II nel 1987.

Ed adesso passiamo ad analizzare la luminosa figura di Giovanni Palatucci.

Questo brillante funzionario di Pubblica Sicurezza da sempre sentì in se il senso della responsabilità dell'uomo nel mondo. Non distacco ma partecipazione alle sofferenze altrui.

Questo tratto, spirituale e psicologico, è un carattere tipico e costante nell'esistenza di questo giovane martire. Nipote di Monsignor Palatucci, vescovo francescano, approfondì gli alti ideali evangelici, raccogliendo l'invito di Cristo a compiere la sua opera nel mondo.

Il suo punto di osservazione non era, solamente, l'altro ma ciò che lui poteva e voleva fare per l'umanità sofferente.

Ciò lo si legge in molti momenti della sua esistenza, ma in modo particolare è evidenziato in tre differenti considerazioni di natura pratica, sulla sua vita professionale.

Nel 1932, in procinto di laurearsi, scrive la sua tesi di laurea sul “nesso di causalità in diritto penale”. Tale considerazione sembra priva di attenzione ma non lo è. Ciò in quanto l'oggetto di tale ricerca giuridica, a detta della dottrina giuridica italiana (Antolisei, Leone, Pannain) segna il confine fra la responsabilità personale del soggetto e l'azione penale. In buona sostanza il giovane Palatucci, con tale lavoro, intende sondare i confini dell'agire morale, in vista della salvaguardia dei diritti della persona, tutelati dal diritto. Questo fa capire quanto fossero centrali i diritti dell'uomo e della persona, nel suo modus pensandi..

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Ai iscrive nel 1932 (con tessera numero 4516) al registro dei praticanti avvocati del Tribunale di Torino, per esercitare la professione forense, ma terminato il prescritto periodo (1936) comprese che, nella sua vita, desiderava servire in altro modo l'umanità, optando per la scelta di entrare nel corpo della Polizia di Stato. Una ragione dettata dal suo profondo senso di servizio, in funzione dell'interesse pubblico e collettivo della società.

Nel 1944, come vice questore di Fiume, visti i tragici eventi bellici, scelse, volontariamente, di non abbandonare la città, per salvare coloro che a lui si erano rivolti.

In questo periodo che va dal 1937 al 22 ottobre 1944 Giovanni Palatucci, con intelligenza, altruismo e fede creò una fitta rete di conoscenze per salvare la vita di migliaia di persone, in qualità di funzionario di Pubblica Sicurezza, addetto all'Ufficio stranieri. Molte le testimonianze di quanto ha fatto questo giovane martire, per la salvezza di tutti coloro bussavano alla sua porta.

Sempre con il sorriso sulla labbra, aveva mosso i destini del volere con quelli della fede per la salvezza dell'altro.

Trovò la morte il 10 febbraio 1945, nel campo di concentramento di Dachau.

Santa Teresa d'Avila, nei suoi testi, ha scritto che si “muore per non morire”. E cosi è stato per Giovanni Palatucci il quale chiuse gli occhi in un campo di concentramento, per aprirli alla beatitudine più grande per un uomo:entrare nel Regno dei cieli.

Nel 2004 terminata la fase diocesana della causa di beatificazione è stato dichiarato servo di Dio.

Questi due uomini, con la loro testimonianza, ricordano che, forse, una risposta al problema del male c'è ed è quella di offrire, con generosità ed amore la propria esistenza in funzione di un Bene maggiore, dato dal Regno dei cieli e dall'amore dell'altro. Del resto non c'è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. E ciò padre Rupert Mayer e Giovanni Palatucci lo hanno vissuto e ma di più testimoniato.