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Papa Francesco e le parrocchie 2.0: un piano per la conversione pastorale

La Congregazione per il Clero ha pubblicato una istruzione su “La Conversione Pastorale della Comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa”. Per parrocchie meno legate al territorio

Parrocchia di San Giulio | La parrocchia di San Giulio a Roma, dove Papa Francesco è stato in visita il 7 aprile 2019 | Diocesi di Roma Parrocchia di San Giulio | La parrocchia di San Giulio a Roma, dove Papa Francesco è stato in visita il 7 aprile 2019 | Diocesi di Roma

Alla fine, resta centrale il ruolo dei parroci per quanto riguarda l’organizzazione, e quello dell’Eucarestia per quanto concerne la vita della Chiesa. Nessun coinvolgimento dei laici nella cura pastorale delle parrocchie può portare ad un “quasi” ministero sacerdotale, e tutto comunque è affidato ai pastori. Detto questo, l’istruzione “La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa”, pubblicata oggi dalla Congregazione per il Clero, punta piuttosto a dare indicazioni di buone pratiche di coordinamento e “dinamismo in uscita”. in un mondo in rapido cambiamento.

Che non ci si potessero aspettare novità, lo spiega anche monsignor Andrea Ripa, sottosegretario della Congregazione per il Clero, in una breve nota esplicativa. Piuttosto, si deve comprendere lo spirito del documento: l’intenzione di dare qualche consiglio pratico per attuare il piano di conversione pastorale proposto da Papa Francesco, evitando auto-referenzialità, neo pelagianesimo e neo gnosticismo, e modellando piuttosto una “Chiesa in uscita.” Sono i temi del pontificato, in fondo, che le parrocchie devono essere chiamate a implementare anche nelle strutture pastorali.

L’istruzione spiega che le situazioni che descrive “rappresentano preziosa occasione per la conversione pastorale in senso missionario”, perché sono “inviti alle comunità parrocchiali a uscire da se stesse, offrendo strumenti per una riforma, anche strutturale, orientata ad uno stile di comunione di collaborazione”.

La considerazione di fondo è che le parrocchie non possono più considerarsi entità territoriali date, perché “la vita delle persone si identifica sempre meno con un contesto definito e immutabile”, e lo spazio non è più compreso come una volta, facendo così perdere il legame con il territorio e moltiplicando i luoghi di appartenenza.

Ed è per questo che le parrocchie sono chiamate “a trovare altre modalità di vicinanza e di prossimità rispetto alle abituali modalità”, considerando più che il territorio geografico limitato “il territorio esistenziale” che va ben al di là dei limiti territoriali. L’istruzione critica la “mera ripetizione” delle attività svolte in passato, chiede “nuove attenzioni e proposte pastorali diversificate”, ma allo stesso tempo riafferma che la comunità parrocchiale è il luogo privilegiato “dove si celebrano i sacramenti e si vive la carità”, carità che va proposta “attraverso una rete di relazioni fraterne, proiettate verso “le nuove forme di povertà”.

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Per quanto si parli molto di rinnovamento, l’antidoto proposto è tradizionale. La Congregazione chiede infatti di riscoprire “l’iniziazione cristiana”, parla di forme di prossimità e chiede alle comunità delle parrocchie di sviluppare “una vera e propria arte della vicinanza”, affida ai parroci la responsabilità di formare i fedeli e di seguirli.

Poi, certo, ci sono le strutture. La Congregazione chiede che la parrocchia sia “una comunità della comunità”, inclusiva, evangelizzatrice, attenta ai poveri su stimolo dei suoi pastori, e modellata anche sull’esempio dei santuari, verso cui promuovere – come già si fa spessissimo – pellegrinaggi.

La Congregazione chiede alle parrocchie di non essere troppo burocratiche; di cambiare, sì, ma con “flessibilità e gradualità”, considerando quello che c’era prima e coinvolgendo tutto il popolo di Dio; di superare “una concezione autoreferenziale della parrocchia”, ma anche “la clericalizzazione della pastorale”.

Quindi, ci sono i consigli organizzativi. Si propone di sviluppare meglio l’idea di “unità pastorale e zona pastorale”, sebbene consapevoli che “una semplice nuova denominazione per realtà già esistenti” non porta alla “soluzione delle molteplici problematiche dell’ora presente”.

L’idea è quella di individuare in ogni diocesi “parti territoriali distinte” che possano essere realtà intermedie che fungano da tramite tra la diocesi e la parrocchia, in modo da migliorare l’attenzione verso il territorio.

L’istruzione spiega anche come il vescovo deve procedere all’erezione di un gruppo di parrocchie, e mette in luce che la soppressione di parrocchie non ha motivi legittimi nella “diminuzione del clero diocesano il decremento demografico e la grave crisi finanziaria della diocesi”. Accorpamento, insomma, non significa abolizione.

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Altre strutture intermedie sono il “vicariato foraneo”, o l’unità pastorale, raggruppamento di parrocchie che deve essere “quanto più possibile omogeneo”, in cui ogni parrocchia deve essere affidata a un parroco o a un gruppo di parroci. Sarà il vescovo invece a valutare se ci sarà un Consiglio per gli Affari Economici e un Consiglio Pastorale Parrocchiale per ogni parrocchia, o uno per l’intera unità.

Queste due strutture sono fortemente raccomandate nell’istruzione.

Il Consiglio per gli Affari Economici deve essere composto da almeno tre fedeli più il parroco che “non è compreso tra i membri, ma lo presiede”. È una struttura che serve a meglio gestire i beni della parrocchia, che non deve includere necessariamente solo persone della parrocchia, e che “può svolgere un ruolo di particolare importanza nel far crescere, all’interno delle comunità parrocchiali, la cultura della corresponsabilità, della trasparenza amministrativa e del sovvenire alle necessità della Chiesa”.

Il Consiglio Pastorale parrocchiale è invece fortemente raccomandato, sebbene non obbligatorio, con la funzione di “ricercare e studiare proposte pratiche in ordine delle iniziative pastorali e caritative che riguardano la parrocchia, in sintonia con il cammino della diocesi”, e lo scopo di “realizzare la centralità del popolo di Dio”.

Parlando del popolo di Dio, la Congregazione ci tiene a specificare come, sebbene anche laici possano ricoprire alcuni incarichi all’interno della diocesi, e persino incarichi di responsabilità, va evitata una qualunque terminologia che faccia confondere i piani: il sacerdote è sempre il sacerdote, il diacono è il diacono e il laico è il laico, ciascuno con tutte le sue prerogative, ma nessuna in più.

Ai sacerdoti si raccomanda una “vita comune”, o perlomeno di sviluppare “il valore dello spirito di comunione”, mentre ogni parroco è davvero chiamato ad avere le chiavi della vita della sua comunità, e infatti è consigliato nominarlo a tempo indeterminato, salvo eccezioni.

Particolare attenzione è data ai diaconi, ministri ordinati cui possono essere affidati “molti incarichi ecclesiali”, e cioè “tutti quelli che non comportano la cura delle anime”, inclusa l’amministrazione dei beni”.

Le “altre forme di affidamento dell’attività pastorale” sono solo eccezionali, cui si può ricorrere solo in caso di mancanza di sacerdoti, avendo cura che “sia il diacono, sia le altre persone non insignite dell’ordine sacro che partecipano all’esercizio della cura pastorale, possono compiere soltanto le funzioni che corrispondono al rispettivo stato diaconale o di fedele laico”.

Niente di nuovo sotto il sole, insomma, nessuna apertura a forme nuove di sacerdozio. Piuttosto, l’invito a un maggiore coinvolgimento del popolo di Dio nella vita delle parrocchie, che passa anche dalla sensibilizzazione per “contribuire volentieri alle necessità della parrocchia”, ovvero con offerte per la Santa Messa, specialmente lì dove questa “è ancora l’unica fonte di sostentamento per i sacerdoti e anche di risorse per l’evangelizzazione”. 

L'offerta, va da sé, deve essere un atto libero, e viene invogliata "quanto più i presbiteri da parte loro offriranno esempi “virtuosi” nell’uso del denaro, sia con uno stile di vita sobrio e senza eccessi sul piano personale, che con una gestione dei beni parrocchiali trasparente e commisurata non su “progetti” del parroco o di un gruppo ristretto di persone, magari buoni, ma astratti, bensì sui reali bisogni dei fedeli, soprattutto i più poveri e bisognosi".

 

 

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