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Parla l'ultimo missionario di Afghanistan: "Ancora non so quando potrò tornare"

Padre Giovanni Scalese, dal 2014 guida della missione sui iuris nel paese, parla con ACI Stampa a qualche mese dalla sua partenza da Kabul

Padre Giovanni Scalese | Padre Scalese con un gruppo di religiosi in Afghanistan nel 2018 | cortesia di Padre Scalese Padre Giovanni Scalese | Padre Scalese con un gruppo di religiosi in Afghanistan nel 2018 | cortesia di Padre Scalese

Non si può parlare di una comunità cattolica in Afghanistan. Ma la speranza è che si possa tornare ad una “situazione normalità”, permettendo così al personale straniero di tornare nel Paese e vivere la fede “senza limitazioni”. Perché – sottolinea padre Giovanni Scalese – “a noi non interesse chi ci sia al governo: ci basta che non vengano posti ostacoli all’esercizio della libertà religiosa".

Padre Giovanni Scalese, Barnabita, era a capo della missione sui iuris in Afghanistan dal 2014. Era succeduto a padre Giuseppe Moretti, che aveva guidato la missione da quando era stata stabilita da Giovanni Paolo II nel 2002 fino al 2014.

Anche padre Moretti era Barnabita, perché fu ai Barnabiti che fu affidata, già nel 1933, la missione in Afghanistan. Questa missione aveva un solo punto di riferimento, ed era l’unica chiesa cattolica nel Paese, costruita all’interno dell’ambasciata italiana. Fu l’Italia a chiedere di poter costruire un luogo di culto cattolico nel Paese al re afghano che voleva esprimere la sua gratitudine perché il governo italiano era stato il primo a riconoscere l’indipendenza del Paese.

Ora, quella cappella è vuota, e anche Padre Scalese è dovuto tornare in Italia dopo la presa del potere da parte dei talebani. Arrivato a Roma il 25 agosto, padre Scalese ha portato con sé le Missionarie della Carità e 14 bambini disabili di cui le suore si prendevano cura.

Parlando con ACI Stampa, Padre Scalese delinea la situazione in Afghanistan, e auspica un futuro almeno più libero, in cui tutti possano esercitare la loro libertà di espressione.

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 “Attualmente – spiega padre Scalese - non si può parlare di una comunità cattolica in Afghanistan. Spero che, quanto prima, si possa tornare a una situazione di normalità — che, di fatto, significa: pace, stabilità, sicurezza — e che quindi il personale straniero possa tornare nel paese e possa anche vivere la sua fede senza limitazioni. A noi non interessa chi ci sia al governo: ci basta che non vengano posti ostacoli all’esercizio della libertà religiosa”.

Padre Scalese ha spiegato che il termine “missionario” con riferimento all’unico sacerdote presente in Afghanistan dal 1933 può essere utilizzato “solo in modo analogico”, perché “il suo compito si limita all’assistenza spirituale dei cattolici (che in un paese islamico al 99% sono solo stranieri)”, mentre “qualsiasi forma di evangelizzazione è esclusa a priori”.

È addirittura difficile parlare di “missione”, per quanto – aggiunge il missionario Barnabita – "nessuno si sia mai fatto problema quando quel termine veniva usato per le missioni militari della NATO o per le missioni umanitarie delle Nazioni Unite”.

Padre Scalese spiega che il proselitismo “è stato escluso sin dalle origine”, ma che all’inizio “l’attività pastorale degli stranieri poteva svolgersi senza restrizione”, Mentre ora ci sono “notevoli limitazioni, causate, innanzi tutto, da motivi di sicurezza e, più recentemente, da motivi sanitari”.

Continua padre Scalese: “Negli ultimi sette anni è diventato sempre piú difficile per me uscire dall’Ambasciata italiana (dove ha sede la Missione) e per i fedeli uscire dai rispettivi compound (rappresentanze diplomatiche e organizzazioni umanitarie e internazionali) ed entrare nella Green Zone e in Ambasciata. Negli ultimi due anni, poi, a causa della pandemia, molti fedeli sono rientrati nei propri paesi, l’Ambasciata è stata sottoposta a un rigido lockdown, per cui, per diversi mesi sono stato costretto a celebrare da solo”.

E così “solo dall’ottobre 2020 sono state riammesse le Suore (che erano abituate a venire a Messa tutti i giorni) per la liturgia domenicale; gli altri pochi fedeli rimasti hanno avuto la possibilità di partecipare all’Eucaristia solo a Natale Pasqua”.  

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Tutto è diventato più complicato con l’arrivo dei talebani. Anche se inizialmente c’era qualche speranza. Racconta Padre Scalese: “Una volta preso il potere, i talebani hanno chiesto alle ONG straniere di rimanere. Ovviamente, la maggior parte di esse ha lasciato l’Afghanistan; alcune di esse continuano a operare attraverso il personale locale. Le tre ONG cattoliche (Jesuit Refugee Service, Missionarie della Carità e Pro Bambini di Kabul – For the Children of Kabul) hanno preferito lasciare il paese per motivi prudenziali”.

Padre Scalese spiega che ora si sta valutando come è la situazione in Afghanistan e che “se dovessero esserci le condizioni per una ripresa delle attività, penso che nessuno si tirerebbe indietro”.

Il missionario barnabita ricorda che “finora, per il personale religioso, l’unica possibilità di svolgere un’attività in Afghanistan era quella di essere registrati come social workers, nell’ambito di un’organizzazione non governativa riconosciuta dal governo. Il loro lavoro era molto apprezzato.

Il sacerdote italiano è lontano da tempo. Ha saputo che Nazioni Unite e Unione Europea voleva riaprire gli uffici in Afghanistan per distribuire gli aiuti, ma non sa a che punto sia l’operazione.

“Personalmente – afferma ritengo che sia inevitabile che ciò avvenga d’accordo con chi è oggi al potere. Non credo che serva a nulla emarginare a livello internazionale o, peggio, demonizzare l’attuale governo: se si vuole davvero aiutare il popolo afghano, occorre essere disposti a collaborare con chiunque, a prescindere dalle differenze ideologiche che ci possono dividere”.

E per quanto riguarda un suo eventuale ritorno in Afghanistan, padre Scalese mette in chiaro: “La mia posizione è sempre stata chiara: non avrei lasciato il paese fino a quando fosse rimasta anche una sola pecorella del mio piccolo gregge. Quando poi il personale religioso della Missione ha preferito partire, come detto, per motivi prudenziali, non c’era per me più motivo di rimanere”.

 

Padre Scalese ha visto la partenza come inevitabile anche perché, con l’ambasciata chiusa e i collaboratori locali evacuati, “sarebbe diventato piuttosto complicato restare sul posto senza poter contare su alcun supporto”.

 

Ancora non si sa se tornerà in Afghanistan, spiega Padre Scalese. “Qualsiasi decisione in merito a un eventuale ritorno — del sottoscritto o di un successore — è di competenza della Santa Sede. So che la Segreteria di Stato sta seguendo attentamente la situazione, in modo da poter prendere una decisione quando sarà il momento”, ha concluso il missionario.