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Pizzaballa: Cristiani in Terra Santa, pacifici tessitori di relazioni

Un colloquio con l'Amministratore apostolico del Patriarcato di Gerusalemme

L'arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato Latino di Gerusalemme  |  | ACS L'arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato Latino di Gerusalemme | | ACS

Uomini politici, giornalisti, fotografi e poche altre figure professionali condividono spesso la vertiginosa esperienza di poter osservare il corso della storia mentre essa si fa.

Un tale osservatore privilegiato è senz´altro l´arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, dal 2016 amministratore apostolico del Patriarcato di Gerusalemme e, da molto tempo prima, Custode di Terra Santa. Da poco meno di trent´anni, insomma, vive in Terra Santa e osserva l´evolversi del conflitto israelo-palestinese dalla prospettiva della piccolissima minoranza cristiana che ancora vive nei luoghi dell´attività pubblica di Gesù.

Monsignor Pizzaballa, ci spieghi brevemente cosa significa il Suo complicato titolo e quali sono i Suoi compiti.

L’amministratore apostolico è una figura un po’ strana, diciamo che è l’emissario del Papa. Il Papa nomina qualcuno per un compito particolare in un luogo speciale. In questo caso sono stato fatto amministratore apostolico. Sono a tutti gli effetti il vescovo diocesano della diocesi che sta vivendo un momento particolare a causa delle questioni politiche, ma anche a causa di problemi interni, soprattutto di carattere economico. Dunque il Santo Padre ha voluto affidarmi questo compito di riportare la serenità all’interno della vita della Chiesa.

Quanti sono i cristiani che vivono in Terra Santa, e quali sono mediamente le loro condizioni di vita?

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Innanzitutto definiamo il territorio. C’è la Terra Santa estesa, la Terra Santa tipica è quella che intendiamo oggi politicamente come Israele e l’autonomia palestinese o Palestina. I cristiani in Israele sono 130.000 circa, i cristiani arabi, poi dobbiamo aggiungere circa 80.000 lavoratori stranieri cristiani, mentre in Palestina i cristiani in tutto sono tra i 45.000 e i 50.000.

In che condizioni vivono? Sono discriminati nei posti di lavoro? In che modo si svolge la loro vita quotidiana?

I cristiani non sono un terzo popolo. In genere si dice ci sono gli israeliani, i palestinesi e i cristiani. I cristiani appartengono al popolo nel quale vivono. In Terra Santa, grazie a Dio, non abbiamo avuto i problemi che abbiamo visto in Siria e in Iraq. Non abbiamo avuto persecuzioni dirette con Daesh, Isis e così via. È chiaro che per i cristiani che sono in Terra Santa, che sono in gran parte palestinesi, la vita non è semplice. Non abbiamo persecuzioni dirette, ma ci sono persecuzioni indirette, difficoltà, discriminazioni. Se sei cristiano è più difficile trovare la casa o trovare un lavoro, insomma le condizioni di vita non sono naturali, immediate.

Mi offre l’assist per la prossima domanda: il tragico destino dei cristiani in Siria e in Iraq ha in qualche modo influenzato la vita dei cristiani in Terra Santa?

Ha avuto un forte impatto psicologico. I cristiani che hanno vissuto a fianco ai musulmani in Siria e in Iraq si sono trovati dall’oggi al domani in situazioni che mai avrebbero previsto. Questo ha fatto pensare ai cristiani di Terra Santa: «Può accadere anche qui?». Ecco, questa domanda certamente ha creato più ansia e più preoccupazione per il futuro.

Recentemente l’amministrazione americana di Donald Trump ha spostato l’ambasciata americana a Gerusalemme, seguita qualche mese dopo dalla Romania. Questi movimenti di politica internazionale quanto si sentono sul territorio?

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Lo spostamento dell’ambasciata americana è stato un punto di non ritorno, se si vuole. Dal punto di vista della vita pratica, della vita ordinaria, non è cambiato un granché. Più o meno si fanno le stesse cose che si facevano prima. È stato un punto di non ritorno dal punto di vista politico. È stato, come dire alla parte palestinese: «Gerusalemme sì, potrebbe essere vostra, ma non lo è». Qualcosa del genere. Il cuore del conflitto israelo-palestinese era Gerusalemme, e qualsiasi questione che coinvolga Gerusalemme e non coinvolga entrambe le parti è destinata a creare una frattura profonda nello scenario politico, ed è quello che è accaduto, dopo lo spostamento dell’ambasciata i palestinesi hanno interrotto ogni relazione con l’amministrazione americana, bloccando il già molto lento, se non già fermo, negoziato israelo-palestinese.

In questa complessa situazione come si inserisce il lavoro della Chiesa cattolica?

Bisogna aver coscienza dei nostri limiti e avere le giuste proporzioni. Come cristiani noi siamo l’1% della popolazione. Non possiamo quindi pretendere, politicamente, di avere il peso che altre comunità possono avere. Detto questo, la Chiesa ha relazioni internazionali, legami con le altre Chiese nel mondo molto forti, questo la rende maggiormente visibile, molto di più rispetto ai numeri reali che essa ha in Terra Santa. Poi c’è l’elemento del pellegrinaggio. Ci sono milioni di pellegrini che vengono da tutto il mondo, e vengono per visitare la Chiesa, i luoghi santi. Questo la rende certamente un punto di riferimento nella vita locale, anche se non così determinante. Il ruolo della Chiesa non è quello di fare il ponte tra israeliani e palestinesi, perché se si vogliono parlare lo fanno anche senza di noi. Il ruolo della Chiesa è quello di mostrare uno stile. C’è un modo cristiano di stare dentro a quella terra, c’è un modo cristiano di stare dentro a quel conflitto, questo è quello che noi dobbiamo fare, la non violenza, non avere nemici, cercare relazioni, costruire relazioni continuamente, con tutti. Questo non è il momento dei grandi gesti, la Chiesa deve lavorare nel territorio, con la comunità, deve cercare di creare piccoli legami, piccoli ponti con tutti, con il nostro stile cristiano.

Lei vive in Terra Santa da 30 anni, questo l’avrà sicuramente arricchita come uomo e come religioso. C’è qualcosa che Lei ha visto, di cui ha fatto esperienza, che vorrebbe dimenticare?

Gli episodi di violenza, la violenza gratuita. Molto spesso, quando uno ha potere, ha in mano un’arma, dimentica perché ce l’ha. Episodi di violenza gratuita di giovani soldati nei confronti di famiglie, sono cose che vorrei dimenticare, che vorrei non vedere più.

Ha invece vissuto un’esperienza che ricorda positivamente e che magari Le dà motivo di sperare nel futuro?

Ho tantissimi ricordi belli, altrimenti non starei lì. È una terra molto difficile, dove ci sono sempre tensioni, dove però le relazioni personali sono molto intense e anche molto vere e profonde. Ho studiato all’università ebraica e quindi ho amicizie molto belle con compagni di scuola, ebrei religiosi che mi hanno aiutato a rileggere la mia fede cristiana. Ho letto insieme a loro i vangeli - il Vangelo di Matteo a quel tempo - le loro domande mi hanno aiutato a rileggere la mia relazione con Gesù.