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Processo Palazzo di Londra, la testimonianza di Pena Parra

Il sostituto della Segreteria di Stato ribadisce quello che era scritto nel memoriale consegnato ai giudici. Torna la questione: quanto era coinvolto il Papa?

Processo Palazzo di Londra | Un momento della testimonianza dell'arcivescovo Edgar Pena Parra, Aula Polifunzionale dei Musei Vaticani, 16 marzo 2023 | Vatican Media / ACI Group Processo Palazzo di Londra | Un momento della testimonianza dell'arcivescovo Edgar Pena Parra, Aula Polifunzionale dei Musei Vaticani, 16 marzo 2023 | Vatican Media / ACI Group

Forse il momento chiave della testimonianza dell’arcivescovo Edgar Pena Parra, sostituto della Segreteria di Stato vaticana, è il racconto della sua convocazione dal Papa il 22 dicembre 2018, a Santa Marta. “Credevo di dover parlare del governo della Chiesa, invece quando entro a Santa Marta mi ritrovo il Papa con l’avvocato Emanuele Intendente e Giuseppe Milanese”.

Più della foto del Papa con Gianluigi Torzi del successivo 26 dicembre, questo racconto mostra come Papa Francesco non solo fosse informato, ma si fosse anche coinvolto nella trattativa per riprendere il pieno controllo dell’immobile di lusso a Londra sulle cui quote la Segreteria di Stato aveva investito. La domanda allora resta sospesa: se tutti erano informati fino ai massimi livelli, perché poi si sta celebrando un processo in Vaticano? Quali sono i reali capi di imputazione?

Il processo

Il processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, giunto alle udienze 51 e 52 il 16 e 17 marzo, è un processo che racchiude tre filoni di inchiesta. Due sono minori, e riguardano principalmente il Cardinale Angelo Becciu, già sostituto della Segreteria di Stato vaticana. Si tratta della vicenda dell’ingaggio della sedicente esperta di intelligence Cecilia Marogna, chiamata come consulente nelle trattative per la liberazione di alcuni religiosi e che avrebbe utilizzato i soldi della Segreteria di Stato per spese personali; e della cosiddetta vicenda Sardegna, ovvero il presunto peculato esercitato da Becciu nel destinare 100 mila euro dei fondi a disposizione della Segreteria di Stato per le opere di carità alla cooperativa SPES, braccio operativo della Caritas di Ozieri, diretta dal fratello.

Il Cardinale Becciu

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Proprio Becciu, all’inizio dell’udienza del 17 marzo, ha voluto rendere due dichiarazioni spontanee, a chiarire il carteggio tra lui e il Papa che è stato diffuso nelle udienze precedenti. Nel carteggio, c’erano due missive di Papa Francesco, in termini legali e non personali, e una del Cardinale Becciu, che faceva seguito ad una telefonata avuta con il Papa e in cui si fornivano al Papa due dichiarazioni di firmare, a certificare che tutte le iniziative del Cardinale, sia sull’affare di Londra che per la liberazione di Suor Cecilia Narvaez in Mali attraverso Cecilia Marogna, erano state approvate dal Papa. Tra l’altro, la questione Marogna è stata anche affrontata dall’arcivescovo Pena Parra, che approvò gli ultimi pagamenti dopo averne parlato con il Papa che confermò.

Il Cardinale Becciu ha affermato di non essere un manipolatore, di non aver mai manipolato il Papa, di non aver voluto dare le missive perché conteneva “indicazioni sensibili”, “Non sono un manipolatore, non ho mai manipolato nessuno, tantomeno il Santo Padre”, ha chiarito il cardinale, sottolineando che questo scambio di lettere era destinato a rimanere privato dal momento che conteneva “indicazioni sensibili” sulla cosiddetta “operazione umanitaria”, cioè la liberazione di una suora colombiana rapita in Mali. Vicenda per la quale il Papa aveva sollevato Becciu dal segreto pontificio. Il cardinale aveva quindi ritenuto opportuno, “per sensibilità istituzionale e a tutela della Santa Sede”, di non diffondere tali lettere.

Becciu ha anche lamentato una diffusione parziale da parte del Promotore di Giustizia vaticano della corrispondenza con il Papa, perché mancava la lettera del cardinale al Papa del 20 luglio che faceva seguito a una telefonata del giorno prima in cui il Pontefice avrebbe chiesto direttamente al suo ex collaboratore di mettere per iscritto dei testi da sottoporgli ed eventualmente firmare. “Come mi ha chiesto, le invio le due dichiarazioni da firmare quanto prima perché dovrò depositarle in Tribunale”, si legge nella missiva riprodotta da Becciu, che rivendica il fatto che non abbia agito di sua iniziativa, ma su richiesta del Papa.

Il filone sul palazzo di Londra

Il filone più grande però riguarda l’investimento della Segreteria di Stato in un immobile di lusso a Sloane Avenue, a Londra, un investimento sulle quote degli ex magazzini Harrods che, ristrutturate e riaffittate grazie a dei permessi, avrebbero dovuto generare profitti. La proposta dell’affare arrivò dal broker Raffaele Mincione, che è stato il primo a gestire le quote. Poi la Segreteria di Stato, nel 2018, decide di cambiare gestione, e affidare il tutto a un altro broker, Gianluigi Torzi. Questi trattiene per sé mille azioni, le uniche delle 31 mila azioni della Segreteria di Stato con potere di voto.

È il momento in cui si ha la consapevolezza che la Segreteria di Stato ha investito in una “scatola vuota” che l’arcivescovo Pena Parra entra in carica come sostituto e cerca di comprendere come gestire la situazione.

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La sua testimonianza del 16 marzo racconta nei dettagli quei concitati momenti. Pena Parra si trova un contratto in essere che non comprende, firmato senza autorizzazioni superiori da monsignor Alberto Perlasca, allora al decimo anno consecutivo a capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato. Perlasca lo aveva spinto a concludere l’accordo del passaggio di gestione paventando “la perdita totale dell’investimento”.

Il sostituto chiede rassicurazioni all’avvocato Nicola Squillace, che crede essere l’avvocato della Segreteria di Stato, e questi gli dice che tutto è risolto, che non ci sono problemi. Solo dopo comprenderà che l’avvocato lavora anche per Torzi, e rifiuterà di pagare l’onorario di 300 mila euro che richiede per i suoi servizi (“Sarebbe stato lui a dover pagare noi”, dice durante la testimonianza).

Persino il Segretario di Stato vaticano, il Cardinale Parolin, rassicura della bontà dell’operazione di investimento, tanto che un riluttante Pena Parra dà l’ok, considerando superati i rilievi del revisore generale Alessandro Cassinis Righini, che pure rilevava delle criticità.

Tutto resta fermo fino a dicembre. Ed è a dicembre che Pena Parra comprende che no, la questione non è risolta, che la Segreteria di Stato si trova con in mano una serie di scatole vuote e che non ha il controllo dell’immobile.

A quel punto, racconta, coinvolge tutte le persone che possono aiutarlo ad uscire dalla situazione: lo studio legale Mishcon de Reya, che cura anche gli interessi della Casa Reale Britannica, anche ma anche un gruppo di lavoro ristretto in Segreteria di Stato, e anche l’Autorità di Informazione Finanziaria per comprendere se e come le transazioni possano avere luogo.

Perlasca sarebbe per denunciare l’imbroglio, ma l’ipotesi viene scartata: si rischia un processo lungo, Torzi ha dei contratti in mano, e il rischio è di perdere tutto, oltre a molti soldi. Le rassicurazioni che le mille azioni date a Torzi siano solo per gestione sembrano subito velleitarie.

E così, Pena Parra chiama Fabrizio Tirabassi, e questi chiede chiarimenti all’architetto Luciano Capaldo, il quale tra l’altro aveva collaborato con Torzi. Ed è Capaldo – tra l’altro ex collaboratore di Torzi - a fare aprire gli occhi sulla vicenda.

La trattativa con Torzi

Un mese dopo quella che Pena Parra considerava la soluzione di un problema, ci si trova di fronte alla necessità di fare una scela difficile. In quel colloquio con Milanese e Intendente, il Papa suggerirà di voltare pagina e ricominciare da capo, cercando di perdere meno soldi possibile.

Unica soluzione: rilevare non le quote del palazzo, ma l’intero immobile. Comincia la trattativa con Torzi: la Segreteria di Stato quantifica in una cifra tra 1 e 3 milioni il possibile compenso, Torzi dice che si deve calcolare sia quanto ha investito che il mancato guadagno, considerando che il costo della sua gestione è sui 4 milioni (quella di Mincione prima era sui 4,5 milioni).

E così, Torzi arriva a chiedere fino a 25 milioni di euro, cifra che scenderà a 20 milioni. Si chiuderà a 15, per quella che l’accusa considera “estorsione”. “Siamo stati costretti a pagare”, dice Pena Parra.

Nell’interrogatorio, Pena Parra descrive quella che vissuto come una “Via Crucis”, conferma che il Papa aveva anche apprezzato la chiusura dell’operazione, definisce leale il comportamento di Tirabassi e corretto e positivo quello dell’Autorità di Informazione Finanziaria, che tra l’altro avrebbe continuato a controllare le transazioni. Viene il sospetto che i raid in Segreteria di Stato e nell’Autorità del 31 ottobre 2019 abbiamo fermato un processo di indagine, che tra l’altro coinvolgeva altre cinque unità di informazione finanziaria a livello internazionale.

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La questione dello IOR

E poi c’è la questione dello IOR, l’Istituto delle Opere di Religione. C’è un mutuo che grava sull’immobile, stipulato con Cheyne Capital, che costa alla Segreteria di Stato 1 milione di euro al mese.

Pena Parra decide di rinegoziare, e per rilevare il mutuo chiede allo IOR, dopo che l’AIF (ente vigilante dello IOR) approva, una anticipazione finanziaria per estinguere il mutuo e avviarne un altro. “Era la possibilità di risolvere in casa il problema”, dice Pena Parra.

È febbraio 2019. Lo IOR non risponde subito, il direttore generale Mammì continua a comunicare con Pena Parra, c’è comunque disponibilità ad erogare il prestito. Il 24 maggio, una lettera del presidente del Consiglio di Sovrintendenza IOR de Franssu dà l’ok definitivo. Il 27 maggio, incredibilmente, lo IOR decide di non procedere più all’anticipazione.

Pena Parra prende carta e penna, sottolinea che l’Autorità ha dato l’ok, chiede di erogare 250 milioni entro il primo giugno. Incontra Mammì il 29 giugno, e poi ha un secondo incontro in Segreteria di Stato, convocato dal Cardinale Parolin, il 25 luglio, cui partecipano i vertici dello IOR, i vertici dell’AIF, Pena Parra che dice ancora di non aver preso coscienza del no al finanziamento. Evidente che Parolin volesse cercare di risolvere una questione aperta.

Il 4 luglio Mammì aveva già fatto la sua segnalazione all’ufficio del Revisore Generale, ma si guarda bene dal dirlo. “Lo ho saputo solo molto tempo dopo”, spiega Pena Parra.

Che ha toni accesi – de Franssu, nella sua testimonianza, non ha mancato di mostrare il suo fastidio – ma soprattutto “perché lo IOR mi aveva sempre dato disponibilità all’anticipazione. Se mi avesse detto subito a febbraio di non potere, avrei proceduto in due mesi con un’altra soluzione, come poi ho fatto. Non ho alcun problema con lo IOR, ma avevo anche l’angoscia di sollevare la Santa Sede dal pagamento di un milione di euro mensili di interesse”.

Il controesame dello IOR del 17 marzo ha portato alla luce altri dettagli. Dopo il no al finanziamento, Pena Parra cerca altre banche, e due istituti di credito di alto livello diedero la loro disponibilità, una immediatamente e una entro pochi mesi.

Si voleva favorire una soluzione interna, ad ogni modo – la ragione per cui ci si rivolge allo IOR per un prestito è anche perché lo IOR avrebbe guadagnato dagli interessi, in una operazione a vantaggio di tutti – e si decise di rivolgersi all’APSA che aprì una linea di credito, cosa che permise di passare dalle spese di un milione il mese a 800 mila euro l’anno. È stata poi l’APSA ha estinguere il mutuo sul palazzo, quando tuttti i fondi gli sono stati trasferiti.

A causa tuttavia dei vari rimandi, da maggio 2019 a settembre 2020 la Santa Sede ha “perso” 24 milioni: 18 mensilità, più le varie spese di gestione pari a circa 4 milioni. Fino alla vendita del palazzo, avvenuta nel luglio 2022, era stato dunque acceso un nuovo mutuo, ma molto meno esoso.

La questione dei servizi

Sono tutte informazioni contenute già in un dettagliato memoriale consegnato da Pena Parra, una nota “ad uso interno”, spiega, che non va necessariamente in tutti i dettagli perché non concepita come una memoria difensiva, ma che spiega in una ventina di pagine anche la situazione che ha trovato in Segreteria di Stato, la sua sorpresa nel non aver ricevuto nessuna nota tramandata dal suo predecessore riguardo le operazioni in corso (“in nunziatura le facciamo sempre”), l’esistenza di un metodo che portava a far firmare i superiori di fronte ad una urgenza vera o presunta, di cui lui stesso sarebbe stato vittima, nonché un certo clientelismo che portava a mantenere sempre gli stessi fornitori, anche quando questi non avevano condizioni vantaggiose.

Nella testimonianza si tocca anche il presunto pedinamento che Pena Parra avrebbe chiesto di fare nei confronti di Torzi attraverso l’ex funzionario Sisde Giovanni Ferruccio Oriente, questione sulla quale Pena Parra resta vago, ma di cui hanno parlato sia Carlino che Capaldo nella testimonianza.

Nel controesame, Pena Parra ha spiegato che “molto sorpreso dell’atteggiamento dello Ior”, la sua preoccupazione più grande era che ci potessero essere dei “contatti” tra l’Istituto e Gianluigi Torzi, il broker (imputato) che manteneva il controllo totale del palazzo londinese attraverso mille azioni con diritto di voto. “Ero stato informato che Torzi aveva detto in riunione a Londra che usciva da porta ma rientrava dalla finestra. Ho avuto il dubbio che questo atteggiamento anomalo fosse dovuto a qualche unione con il gruppo contrario a noi. Per questo ho chiesto al signor Oriente e al comandante della Gendarmeria (allora Giandomenico Giani, ndr) di fare un rapporto. Non sono interessato alla vita del direttore, ma era dovere mio come sostituto vedere se lo Ior fosse stato in qualche modo dentro a questa faccenda. L’ho fatto e, se fosse il caso, lo rifarei. Mi sembrava un dovere”.

Il rapporto con Torzi

Una preoccupazione e una sfiducia che nascono anche da un dato: quando Pena Parra si rende conto a dicembre che Torzi ha messo la Segreteria di Stato in un vicolo cieco, lo convoca e Torzi per tutta risposta elimina Tirabassi dal board della GUTT, la sua società con cui gestisce l’immobile di Londra, lasciando così Pena Parra senza alcun riferimento. Quando Milanese, l’amico del Papa che su richiesta dello stesso Papa aveva intavolato una trattativa, deciderà per ragioni personali di non essere più coinvolto, Pena Parra si rivolgere ad un avvocato internazionale, Dal Fabro. Anche lui deciderà di non essere coinvolto.

Ci si trova, insomma, davanti a un Torzi determinato a far valere il contratto (mai firmato secondo il suo avvocato) che prevede che lui riceva il 3 per cento del valore dell’immobile, e una situazione confusa in cui nessuno si fida più di nessuno, con il dubbio anche che le offerte sul palazzo siano artefatte nello scopo di aumentare il valore della transazione in favore di Mincione.

Lo stesso Parolin mostrerà a Pena Parra due offerte per l’immobile, cui Pena Parra non crederà perché “fuori del valore di mercato” che ormai si conosceva.

La Segreteria di Stato, che si è costituita parte civile, punta a recuperare i soldi che le sarebbero stati sottratti, lamenta che nessun contratto specificava che il controllo dell’immobile era nelle mille azioni date a GUTT, sottolinea che Mincione prima non avesse mai fatto sapere che sull’immobile gravava un mutuo.

Ma se questi sono dettagli tecnici, resta la domanda: se il Papa era a conoscenza di tutto, e ha approvato la trattativa, come si potrà provare la presunta estorsione di Torzi o la malafede di Mincione? Se Tirabassi e l’AIF hanno agito bene, come ha detto Pena Parra, perché sono tra gli imputati? E perché invece non è finito tra gli imputati monsignor Alberto Perlasca, la cui testimonianza è stata tra l’altro resa poco credibile dalle dichiarazioni rese da Genevieve Ciferri e Francesca Immacolata Chaouqui, le quali avevano avuto entrambe, in modi diversi, in ascendente su di lui?

Sono le domande che restano aperte, e che si spera troveranno risposta.