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Situazione in Sudan, il nunzio: "Non è una guerra civile, né una guerra religiosa"

L’arcivescovo Muñoz Cárdaba, nunzio nel Paese, parla con ACI Stampa della situazione nel Paese. La nunziatura è stata evacuata. Continuano i combattimenti

Acivescovo Muñoz Cárdaba | L’arcivescovo Muñoz Cárdaba, nunzio in Sudan | COPE Acivescovo Muñoz Cárdaba | L’arcivescovo Muñoz Cárdaba, nunzio in Sudan | COPE

Le ultime notizie provenienti dal Sudan parlano di combattimenti a Khartoum, nella capitale, dove le Rapid Support Forces hanno annunciato di aver preso il controllo di una base della Central Reserve Police, l’ala della polizia piuttosto brutale che fiancheggia l’esercito regolare. Di fatto, da quando il 15 aprile è scoppiata il conflitto in Sudan, la situazione non solo non è migliorata, ma peggiora. Il personale diplomatico è stato evacuato, e anche il nunzio apostolico, l’arcivescovo

Luis Miguel Muñoz Cárdaba, “ambasciatore del Papa” nel Paese dal 2020, si trova attualmente in Eritrea. La nunziatura e anche la cattedrale di Khartoum sono state saccheggiate negli scorsi giorni.

In una situazione particolarmente difficile anche dal punto di vista logistico, il nunzio ha parlato con ACI Stampa dettagliando gli eventi e fornendo un quadro globale di ciò che sta accadendo.

Quale è la situazione in Sudan?

Ora che è scoppiata la guerra, e guardando indietro, credo che siamo stati tutti un po’ ingenui circa la vera situazione in Sudan. Quando sono arrivato a Khartoum nel 2020, dopo la rivoluzione civica e la caduta del regime dittatoriale del presidente Omar al-Bashir, era iniziato un periodo di transizione democratica nel Paese. Ovunque, ma in particolare nelle ambasciate occidentali e negli organismi internazionali, si respirava un clima di grande ottimismo sul futuro. Ricordo che un ambasciatore occidentale mi diceva con entusiasmo che il Sudan sarebbe stato un esempio di transizione pacifica verso la democrazia, un esempio per il Corno d’Africa e per tutta l’Africa.

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Curiosamente, questo ottimismo che sentivo spesso tra gli ambasciatori occidentali contrastava con il parere dei vescovi locali, un parere molto più pacato. I fatti attuali hanno dato ragione ai vescovi.

Ma in cosa consisteva questo “ottimismo ingenuo”?

Si pensava, per esempio, fosse facile unire due grandi gruppi militari del paese, ovvero le Forze Armate e le Forze di Supporto Rapido, in un unico esercito al servizio del popolo e della democrazia. Ma questo ottimismo è stato sepolto dalla cruda realtà. La guerra scoppiata tra questi due gruppi rende chiaro che non è possibile che un Paese abbia due eserciti e due leader militari. Il detto popolare dice che due galli non possono stare in pace nello stesso pollaio. Prima o poi scoppia una guerra tra loro.

Quale è stata la posizione della Santa Sede?

Dall’inizio del periodo di transizione verso la democrazia in Sudan, la Santa Sede ha appoggiato i diversi processi di dialogo e di pace che si sono aperti nel Paese in questi ultimi anni. Gli organismi internazionali hanno capito che la missione che dovevano svolgere era una missione di mediazione con lo scopo di facilitare il dialogo tra tutti i sudanesi – partiti politici, gruppi ribelli, società civile, gruppi militari… Si trattava di un ruolo di facilitazione, e non un ruolo di guida, che negli ultimi tempi è stato svolto principalmente da un gruppo tripartito che coinvolgeva le Nazioni Unite, l’Unione Africana e un gruppo di Paesi del Corno d’Africa.

E ora quale è la situazione?

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Una volta scoppiata la guerra, tutto questo processo di facilitazione è purtroppo fallito, almeno per ora. Attualmente, ci sono diversi Paesi – in modo particolare gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita e alcuni organismi internazionali – impegnati per un cessate il fuoco e l’apertura di negoziati di pace per poter arrivare presto alla fine del conflitto. Purtroppo, come vediamo, i risultati di questi tentativi non sono per ora soddisfacenti, e la guerra continua con grande drammaticità.

Dunque, cosa può fare ora la Santa Sede?

La Santa Sede segue da vicino tutti questi tentativi di pace, e li appoggia. Ultimamente, sembra che all’interno della popolazione civile del Sudan stiano nascendo, in modo embrionale, diverse iniziative per far sentire la voce della maggioranza civile del Paese in questo conflitto armato. Queste iniziative civiche stanno cercando di organizzarsi affinché possano partecipare alle eventuali trattative di pace e alle conversazioni sul futuro del Paese.

Come valuta lei queste iniziative?

A me sembra che per raggiungere la desiderata pace definitiva e duratura in Sudan non basti sentire solo i due generali in conflitto. Non si può ridurre tutto al conflitto tra due uomini e due gruppi armati per una pace duratura e stabile. Bisogna sentire e bisogna contare soprattutto sulla maggioranza del Paese, la maggioranza della popolazione civile che desidera la pace e che cerca disperatamente di superare il conflitto attuale per un futuro migliore.

Quale è la situazione dei cristiani in Sudan?

Come è noto, il Sudan è un Paese in maggioranza musulmano con una presenza minoritaria di cristiani. I fedeli cattolici in tutto il Paese si aggirano intorno al milione, e la maggior parte di loro sono persone molto povere. Molti di loro sono rifugiati sudanesi che occupano gli strati più bassi della società. Perciò, la presenza politica, sociale e culturale dei nostri cattolici in Sudan è poco rilevante. Tuttavia, la Chiesa cattolica, sin dall’arrivo dei primi missionari comboniani, svolge un importantissimo, e direi anche prezioso, lavoro di educazione. Alcuni tra i licei e le scuole più prestigiose del Paese sono gestiti dalla Chiesa, e lì l’educazione non è indirizzata solo ai cattolici, ma a tutti. Non solo il livello accademico è alto, ma vengono diffusi soprattutto i valori della fraternità, del rispetto e della tolleranza, contribuendo positivamente affinché l’educazione delle nuove generazioni avvenga in un ambiente molto più tollerante, aperto moderno.

Come la Santa Sede accompagna questo movimento?

Da tempo la Santa Sede cerca di aiutare affinché la libertà religiosa riconosciuta dalla Costituzione sudanese non resti soltanto una libertà di culto, ma sia vera libertà religiosa per la Chiesa cattolica e per tutte le altre minoranze religiose presenti in Sudan. Noi ci adoperiamo affinché questa libertà religiosa che lo Stato riconosce si traduca anche in fatti concreti, come per esempio il riconoscimento della personalità giuridica della Chiesa, che permetterebbe alla Chiesa e alle altre confessioni di vivere in modo normale il loro servizio religioso, ma anche assistenziale alla popolazione sudanese.

Quello che si vive oggi in Sudan è anche un conflitto religioso?

Il grave conflitto militare che vive oggi drammaticamente il Sudan non è una guerra religiosa, per il momento nemmeno una guerra civile. Si tratta di un conflitto tra due gruppi militari potenti, e nel mezzo si trova la popolazione civile che ne soffre drammaticamente le conseguenze. Vero è che sono state saccheggiate alcune chiese, e fra queste anche la cattedrale cattolica di Khartoum, ma le chiese non sono l’obiettivo degli attacchi. Piuttosto, il saccheggio si estende in tutte le azioni del conflitto, tanto che sono state oggetto di saccheggio anche ambasciate, inclusa la nunziatura, università e negozi, moschee, residenze private. Non è una una questione religiosa, non è una guerra religiosa.

A che punto è il conflitto oggi?

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Al momento, la maggior parte del territorio sudanese è sotto il controllo delle forze armate dell’esercito regolare e si vive una situazione di relativa calma. Al contrario, nella capitale, ma anche nella regione del Darfur, la guerra continua con grande crudeltà. Dopo più di due mesi dall’inizio del conflitto, nella capitale Khartoum due bande militari continuano a combattere, e nessuno dei due gruppi riesce a prendere il controllo. Mentre nel Darfur sembra che il conflitto fra gruppi militari si stia trasformando anche in un conflitto tra tribù arabe e non arabe. Questo è molto grave.

C’è una possibilità di riconciliazione?

Sono un po’ pessimista a riguardo. La possibilità che i due generali possano riconciliarsi mi sembra remota. Sono due militari, l’unica via d’uscita sarà la vittoria dell’uno o dell’altro.

E come vede la popolazione?

A mio parere, il popolo non è diviso. Non si tratta di una guerra civile tra partiti, non c’è una divisione ideologica nel Paese riguardo al conflitto. Ci sono due gruppi militari in contrasto e il popolo si trova in mezzo, soffrendo per le conseguenze. Credo che più la guerra avanzi, più si moltiplichino i poveri che stanno soffrendo. Si devno unire tutte le energie per arrivare alla pace e poter ricostruire il Paese in pace. Credo che se questa guerra resta, si crea anche questo senso forte di comunione delle persone contro il conflitto e in favore della pace e di un progresso necessario in un Paese così povero.

Come aiutare oggi il Sudan?

La situazione attuale del Paese è drammatica a causa della guerra. Più di metà della popolazione ha bisogno di assistenza umanitaria urgente. Ci sono circa due milioni e mezzo di sfollati, e più di 200 mila sudanesi hanno lasciato il Paese scappando dalla guerra, andando nei Paesi confinanti, in Egitto, Ciad, Sud Sudan e sono tutti bisognosi di aiuto.

Raccogliendo i recenti appelli del Papa, credo che la Chiesa possa aiutare il Paese in tre modi diversi. Il primo, che è il più importante per me come cristiano, è la preghiera costante per la pace. Il secondo è un impegno diplomatico che appoggi le iniziative di cessate il fuoco per motivi umanitari e sostenga un vero processo di dialogo e di trattative per raggiungere la pace definitiva e duratura.

Il terzo è l’aiuto economico ed assistenziale per ricostruire il Paese una volta finita la guerra. A quel punto, ci sarà bisogno di tanto aiuto, non solo materiale, ma anche umano. E per questo vorrei segnalare il magnifico servizio ed esempio svolto dai nostri missionari cattolici in passato ed oggi in favore della popolazione sudanese. Sono sicuro che loro, sempre pieni di zelo apostolico ed i amore per i più bisognosi, continueranno, dopo la fine della guerra, a fare del proprio meglio affinché questo Paese possa alzarsi e aprirsi a un futuro migliore di pace, progresso e sviluppo.