Diddi, che pure si era detto soddisfatto del dispositivo di sentenza, ha fatto un appello in cui difende le sue 487 pagine di rinvio a giudizio, una tesi accusatoria che non è stata scalfita neppure dal dibattimento – e in effetti la requisitoria di Diddi si sarebbe potuta svolgere allo stesso modo tre anni fa.
In tre pagine, Diddi ha chiesto che la corte di appello vaticana condanni ognuno degli imputati su tutte le ipotesi di accusa originali, contestando il fatto che il Tribunale in molti casi non abbia definito crimini quei comportamenti.
Diddi ha anche contestato la decisione del Tribunale di non usare l’interrogatorio di Torzi mentre era in carcere in Vaticano, dove ha trascorso dieci giorni ed è stato rilasciato dopo che questi aveva prodotto una memoria.
Gli altri appelli
Come detto, Segreteria di Stato e Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica non si sono appellati. Evidentemente, sono soddisfatti con la sentenza, che comunque ha definito un loro diritto ad un risarcimento. Allo stesso modo, ASIF e IOR hanno presentato già istanza di appello. L’ASIF è arrivata a definire, nelle sue richieste, un obbligo dell’intelligence di comunicare delle sue indagini con il promotore di Giustizia, obbligo che non è previsto in nessuno dei protocolli internazionali. Lo IOR è arrivato a definire una differenza tra Santa Sede e Santo Padre, chiedendo persino alla Segreteria di Stato di restituire il contributo volontario che lo IOR destinava alla Santa Sede dai suoi profitti perché sia ridestinato al Santo Padre – e, nel diritto canonico, Santo Padre, Santa Sede, persino Segreteria di Stato sono sostanzialmente sinonimi.
Di fatto, sono posizioni difficilmente sostenibili in punta di diritto, ma che verranno reiterate in sede di appello.
Si certifica, di fatto, un asse tra Promotore di Giustizia e organismi finanziari della Santa Sede, e vale la pena ricordare che il processo è partito da una denuncia dello stesso IOR, che prima aveva accettato di dare un anticipo alla Segreteria di Stato per rilevare il palazzo di Londra sgravandosi di un mutuo oneroso sullo stesso palazzo e poi aveva incredibilmente rifiutato il prestito – che poteva dare secondo regolamento – denunciando la stessa Segreteria di Stato.
Il rischio è che si definisca un potere giudiziario che sovrasta il potere esecutivo, una sorta di ipertrofizzazione del ruolo dei magistrati che va di pari passo con la vaticanizzazione della Santa Sede. Il Papa, infatti, è intervenuto nel processo con quattro rescritti che hanno dato poteri straordinari al promotore di Giustizia vaticano, di fatto stabilendo una sorta di supremazia della gestione dello Stato sulla Santa Sede, considerando che uno degli effetti del processo è stata la spoliazione di molte delle prerogative della Segreteria di Stato vaticana, ormai senza autonomia finanziari e fuori dal governo delle finanze.
I problemi del secondo grado
Di fatto, il processo di appello porta con sé varie incognite. Se già il processo di primo grado aveva messo in discussione molta della capacità giudiziaria della Santa Sede, l’appello si presenta con non meno incognite. A partire dal fatto che l’ufficio del promotore di Giustizia non cambia, e resta lo stesso anche nell’appello.
Papa Francesco riformò la Corte di Appello l’8 febbraio 2021, appena tre giorni dopo la nomina di Catia Summaria come promotore di Giustizia della Corte di Appello, con un motu proprio che stabiliva “cambiamenti in termini di giustizia”, in cui si specificava che negli appelli le funzioni del procuratore sono esercitate da un magistrato dell’ufficio del promotore di giustizia.
Significa che il promotore che si è appellato è quello che poi presenterà di nuovo l’accusa, sebbene di fronte a un giudice diverso – presidente della Corte di Appello è l’arcivescovo Alejandro Arellano Cedillo, che è anche decano del Tribunale della Rota Romana.
La Corte di Appello ha anche come giudici monsignor Francesco Viscome e Massimo Massella Ducci Teri. Manca un presidente di garanzia come Giuseppe Pignatone, che ha comunque gestito il primo grado dando spazio a tutte le difese. C’è un giudice canonista, monsignor Viscome, ed è auspicabile che venga coinvolto, perché l’esautorazione dei canonisti significherebbe una ulteriore esautorazione della Santa Sede.
Va notato, infatti, che in primo grado l’ufficio del Promotore di Giustizia, nonché i ranghi del Tribunale, provenivano tutti dalla avvocatura italiana, con vari incarichi in Italia. Diddi affianca alla sua attività in Vaticano, quella di avvocato. Tra i suoi clienti, Salvatore Buzzi, condannato a circa 18 anni di reclusione nel caso “Mondo di mezzo” a Roma, noto alle cronache come “Mafia Capitale”.
E ancora: il giudice Riccardo Turrini Vita è Direttore Generale della formazione, Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Ministero della Giustizia italiano; il giudice Carlo Bonzano è avvocato a Roma, così come il giudice Paolo Papanti Pellettier, che risulta anche essere Presidente del Tribunale Magistrale di prima istanza dell’Ordine di Malta, e che, pur avendo specialità di diritto civile ed ecclesiastico, è stato giudice istruttore delle indagini su Cecilia Marogna.
Lavorano come avvocati a Roma anche i Promotori di Giustizia Roberto Zannotti e Gianluca Perone.
Sono tutti professionisti con esperienza in vari ambiti del diritto italiano. L’ordinamento vaticano, tuttavia, ha come riferimento il diritto canonico, e dunque il legame così forte con l’Italia rischia di essere controproducente. Non solo. Le nuove disposizioni in materia giuridica hanno portato a un ritorno indietro delle norme, permettendo a tutti i giudici in Vaticano di essere part time, andando contro alla richiesta del Consiglio di Europa che voleva che almeno uno dei giudici e dei promotori fosse dedicato a tempo pieno al tribunale.
Insomma, al di là della vaticanizzazione della Santa Sede, il rischio è quello di una italianizzazione, e dunque una provincializzazione, rispetto alla Santa Sede, che ha un ordinamento peculiare e una visione universale. Il Tribunale del Papa rischia, così, di trasformarsi in una procura dell’agro romano, come ebbe a notare anche un editoriale di Giuliano Ferrara per Il Foglio.
L’appello di Becciu
Il cardinale Becciu ha presentato un appello più articolato, in quasi 40 pagine, ribadendo tutte le tesi difensive e mettendo in luce le incongruenze della sentenza. A partire dal peculato per cui il Cardinale è stato condannato, che non ha ragione di essere sia perché non c’è stato alcun passaggio di denaro diretto ad alcun famigliare del cardinale, e perché il denaro destinato dalla Segreteria di Stato al tempo in cui Becciu era sostituto non andava alla cooperativa SPES, di cui il fratello del cardinale era presidente, ma direttamente alla Caritas. Tra l’altro, delle due tranche, quella di 25 mila euro è stata utilizzata per comprare una macchina per la panificazione, dato che l’altra era stata danneggiata da un incendio, e quella di 100 mila era destinata ad un progetto ed è rimasta in pancia alla stessa Caritas.
Inoltre, la difesa Becciu nota che il denaro investito non ha mai riguardato l’Obolo di San Pietro, come era emerso anche in dibattimento.
I difensori hanno notato che “in particolare, è emerso che la sottoscrizione iniziale del fondo Athena, quando ancora era denomitato Athena Capital Commodities Fund era stata decisa dall’Ufficio amministrativo e dai consulenti esterni della Segreteria di Stato in materia di investimenti, durante la due diligence relativa all’investimento Falcon Oil. Anche la prosecuzione dell’investimento nel fondo Athena GOF, poi, era stata istruita dall’Ufficio amministrativo, competente per gli investimenti della Segreteria di Stato, e valorizzata dall’Ufficio con l’appunto dell’8 luglio 2014, già in atti”.
Dunque, si legge ancora nella richiesta di appello, “la condanna del Cardinale Becciu in relazione al peculato per la sottoscrizione nel fondo Athena (istruita e perorata dall’ufficio amministrativo), dunque, contrasta pienamente con l’archiviazione di Monsignor Perlasca, responsabile dell’Ufficio Amministrativo, inizialmente indagato per tale investimento, poiché l’investimento è stato pensato e istruito proprio dall’ufficio da lui diretto ed è stato dallo stesso suggerito”.
Gli avvocati hanno poi ribadito l’illogicità della truffa aggravata con destinazione dei soldi a Cecilia Marogna, che tra l’altro sono stati erogati quando il Cardinale non era più sostituto.