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Processo Palazzo di Londra, verso l'appello

In attesa della sentenza, ci sono già le dichiarazioni di appello. L’assenza di APSA e Segreteria di Stato. Le richieste del promotore di Giustizia

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Dopo la sentenza del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, il promotore di Giustizia vaticano Alessandro Diddi si era dichiarato soddisfatto dell’esito del processo. Ma era una soddisfazione effimera, perché lo stesso promotore di Giustizia ha poi depositato una dichiarazione di appello alla sentenza articolatissima, che di fatto mette in discussione l’intero dispositivo di sentenza.

Così, in attesa di avere la sentenza – ci vorranno almeno sei mesi, ma la previsione è che si abbia il documento non prima di settembre 2024 – è cominciato già il dibattito sulla base del dispositivo, che in realtà ha da una parte smantellato buona parte delle ricostruzioni del promotore di giustizia e dall’altra ha riconosciuto vari reati agli imputati, definito richieste di risarcimento e confische da effettuare solo dopo l’appello (ma ci vorrà una delibazione, un riconoscimento da parte di altri Stati).

Non ci saranno, nel secondo grado, Segreteria di Stato e Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica. Erano state parti civili nel processo di primo grado, hanno ottenuto parziale soddisfazione con un risarcimento, e hanno deciso che no, non serve appellarsi ulteriormente. Ma ci sarà, oltre al promotore di Giustizia, anche l’Autorità di Supervisione e Informazione Finanziaria e l’Istituto per le Opere di Religione, che nell’annuncio dell’appello non hanno esplicitato ancora in cosa non sono d’accordo con il tribunale. Ça va sans dire, tutti gli imputati hanno presentato appello. Alcune difese, come quella del Cardinale Angelo Becciu, hanno già fornito una prima articolazione dell’appello. Altri hanno semplicemente annunciato l’appello, riservandosi di definirne i termini nel momento in cui ci sarà la sentenza.

Il processo

Per chiarezza di esposizione, definiamo i tre tronconi principali del processo, che riguarda fatti accaduti tra il 2012 e il 2019. Il primo riguarda l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, nelle quote di un palazzo di lusso a Londra. Dopo aver deciso di non dare seguito alla possibilità di partecipare ad una piattaforma petrolifere in Angola, la Segreteria di Stato diede in gestione al broker Raffaele Mincione un fondo utilizzato per comprare le quote di un palazzo da sviluppare. Poi, diede le stesse quote in gestione al broker Gianluigi Torzi, che – inizialmente all’oscuro della Segreteria di Stato – mantenne per sé le uniche azioni con diritto di voto, e di conseguenza il pieno controllo del palazzo. Infine, rilevò l’intero palazzo, che è stato recentemente rivenduto.

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Quindi, parte del processo si concentra sul contributo dato dalla Segreteria di Stato alla Caritas di Ozieri per lo sviluppo di un progetto della cooperativa SPES, presieduta dal fratello del Cardinale Becciu. L’accusa, nei confronti di Becciu, è quella di peculato.

Il terzo filone riguarda la sedicente esperta di geopolitica Cecilia Marogna, ingaggiata dalla Segreteria di Stato, che avrebbe utilizzato denaro a lei erogato per delle presunte operazioni di salvataggio di ostaggi (come quello della suora colombiana Cecilia Narvaez rapita in Mali) per fini personali.

.Condanne e assoluzioni

Unico completamente assolto da ogni capo di imputazione è monsignor Mauro Carlino, all’epoca dei fatti segretario del sostituto della Segreteria di Stato.

Il Cardinale Becciu ha avuto condanne per tre capi di imputazione, due per peculato e uno per truffa. Uno dei reati di peculato lo vede in concorso con il broker Raffaele Mincione per aver destinato 200 milioni di euro (un terzo della capacità di investimento della Segreteria di Stato) in un fondo altamente speculativo appartenente al broker.

René Bruelhart e Tommaso Di Ruzza, rispettivamente presidente e direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria all’epoca dei fatti contestati, ricevono solo una multa di 1750 euro. Enrico Crasso, il broker che per conto di Credit Suisse prima e poi in altre vesti gestiva i fondi della Segreteria di Stato vaticano, è condannato alle pena di sette anni di reclusione e 10 mila euro di multa con interdizione perpetua dai pubblici uffici.

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Raffaele Mincione, cui era stato affidato il fondo che poi fu destinato all’acquisto di quote dell’immobile di Londra, a cinque anni e sei mesi di reclusione, ottomila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Fabrizio Tirabassi, l’officiale della amministrazione della Segreteria di Stato che fu coinvolto dai superiori nelle trattative, è condannato a sette anni e sei mesi di reclusione, diecimila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Nicola Squillace, avvocato, coinvolto da Gianluigi Torzi nella compravendita, ha una pena sospesa di un anno e sei mesi.

Gianluigi Torzi, il broker che rilevò la gestione delle quote dell’immobile da Mincione per conto della Segreteria di Stato, è condannato a sei anni di reclusione, 6 mila euro di multa, interdizione perpetua dai pubblici uffici e sottoposizione alla vigilanza speciale per un anno.

Cecilia Marogna, la sedicente “agente segreta” che ricevette un compenso di 500 mila euro per una operazione di liberazione di una suora rapita in Mali e che secondo l’accusa avrebbe usato per sé, è condannata a 3 anni e 9 mesi di reclusione con interdizione temporanea dai pubblici uffici per lo stesso periodo.

La società della Marogna, la Logsic Humanitarne Dejavnosti D.O.O. pagherà una multa di 40 mila euro e ha divieto di contrattare con le autorità pubbliche per due anni.

Inoltre, il Tribunale ha ordinato la confisca per equivalente delle somme costituenti corpo dei reati contestati per oltre 166.000.000 di euro complessivi. Gli imputati sono stati infine condannati, in solido tra loro, al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, liquidati complessivamente in oltre 200.000.000,00 di euro.

I risarcimenti danni

Tra i danni da conteggiare, anche 80 milioni di danni non patrimoniali per la Segreteria di Stato, mentre la sentenza punta anche a recuperare tutto il denaro destinato da Becciu alla Caritas di Ozieri e quello destinato alla sedicente esperta di intelligence Cecilia Marogna. Le confische saranno esecutive a partire dalla sentenza di secondo grado, ma c’è una norma che prevede la possibilità di confiscare i proventi del reato già con la sentenza di primo grado.

Con le casse sofferenti, e rese ancora più sofferenti dall’inquadramento dei giudici vaticani nei ranghi dirigenziali della Curia con relativo stipendio (decisione arrivata da Papa Francesco a due settimane dalla sentenza), recuperare il denaro è, per la Santa Sede, una necessità. Tanto più che il pool di avvocati messo in campo in questo processo, capeggiato dalla celeberrima Paola Severino in difesa della Segreteria di Stato e dall’altrettanto celebre Gian Maria Flick per l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, non è stato certamente a buon mercato. Tuttavia, per le confische serve innanzitutto che la sentenza vaticana venga riconosciuta efficace da un ordinamento estero. Serve, cioè, la “delibazione”.

L’appello di Diddi

Il dispositivo di sentenza dello scorso 16 dicembre, accompagnato da un comunicato stampa dello stesso tribunale, in qualche modo smantellava i capi di imputazione delineati dal promotore di Giustizia. C’erano molte assoluzioni, mentre in diversi casi i capi di imputazione erano stati assorbiti in nuovi capi di imputazione. Inoltre, nel corso del processo, il Tribunale non aveva ammesso come prove le dichiarazioni fornite dal broker Gianluigi Torzi quando questi era in carcere in Vaticano dove si era recato a deporre.

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Diddi, che pure si era detto soddisfatto del dispositivo di sentenza, ha fatto un appello in cui difende le sue 487 pagine di rinvio a giudizio, una tesi accusatoria che non è stata scalfita neppure dal dibattimento – e in effetti la requisitoria di Diddi si sarebbe potuta svolgere allo stesso modo tre anni fa.

In tre pagine, Diddi ha chiesto che la corte di appello vaticana condanni ognuno degli imputati su tutte le ipotesi di accusa originali, contestando il fatto che il Tribunale in molti casi non abbia definito crimini quei comportamenti.

Diddi ha anche contestato la decisione del Tribunale di non usare l’interrogatorio di Torzi mentre era in carcere in Vaticano, dove ha trascorso dieci giorni ed è stato rilasciato dopo che questi aveva prodotto una memoria.

Gli altri appelli

Come detto, Segreteria di Stato e Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica non si sono appellati. Evidentemente, sono soddisfatti con la sentenza, che comunque ha definito un loro diritto ad un risarcimento. Allo stesso modo, ASIF e IOR hanno presentato già istanza di appello. L’ASIF è arrivata a definire, nelle sue richieste, un obbligo dell’intelligence di comunicare delle sue indagini con il promotore di Giustizia, obbligo che non è previsto in nessuno dei protocolli internazionali. Lo IOR è arrivato a definire una differenza tra Santa Sede e Santo Padre, chiedendo persino alla Segreteria di Stato di restituire il contributo volontario che lo IOR destinava alla Santa Sede dai suoi profitti perché sia ridestinato al Santo Padre – e, nel diritto canonico, Santo Padre, Santa Sede, persino Segreteria di Stato sono sostanzialmente sinonimi.

Di fatto, sono posizioni difficilmente sostenibili in punta di diritto, ma che verranno reiterate in sede di appello.

Si certifica, di fatto, un asse tra Promotore di Giustizia e organismi finanziari della Santa Sede, e vale la pena ricordare che il processo è partito da una denuncia dello stesso IOR, che prima aveva accettato di dare un anticipo alla Segreteria di Stato per rilevare il palazzo di Londra sgravandosi di un mutuo oneroso sullo stesso palazzo e poi aveva incredibilmente rifiutato il prestito – che poteva dare secondo regolamento – denunciando la stessa Segreteria di Stato.

Il rischio è che si definisca un potere giudiziario che sovrasta il potere esecutivo, una sorta di ipertrofizzazione del ruolo dei magistrati che va di pari passo con la vaticanizzazione della Santa Sede. Il Papa, infatti, è intervenuto nel processo con quattro rescritti che hanno dato poteri straordinari al promotore di Giustizia vaticano, di fatto stabilendo una sorta di supremazia della gestione dello Stato sulla Santa Sede, considerando che uno degli effetti del processo è stata la spoliazione di molte delle prerogative della Segreteria di Stato vaticana, ormai senza autonomia finanziari e fuori dal governo delle finanze.

I problemi del secondo grado

Di fatto, il processo di appello porta con sé varie incognite. Se già il processo di primo grado aveva messo in discussione molta della capacità giudiziaria della Santa Sede, l’appello si presenta con non meno incognite. A partire dal fatto che l’ufficio del promotore di Giustizia non cambia, e resta lo stesso anche nell’appello.

Papa Francesco riformò la Corte di Appello l’8 febbraio 2021, appena tre giorni dopo la nomina di Catia Summaria come promotore di Giustizia della Corte di Appello, con un motu proprio che stabiliva “cambiamenti in termini di giustizia”, in cui si specificava che negli appelli le funzioni del procuratore sono esercitate da un magistrato dell’ufficio del promotore di giustizia.

Significa che il promotore che si è appellato è quello che poi presenterà di nuovo l’accusa, sebbene di fronte a un giudice diverso – presidente della Corte di Appello è l’arcivescovo Alejandro Arellano Cedillo, che è anche decano del Tribunale della Rota Romana.

La Corte di Appello ha anche come giudici monsignor Francesco Viscome e Massimo Massella Ducci Teri. Manca un presidente di garanzia come Giuseppe Pignatone, che ha comunque gestito il primo grado dando spazio a tutte le difese. C’è un giudice canonista, monsignor Viscome, ed è auspicabile che venga coinvolto, perché l’esautorazione dei canonisti significherebbe una ulteriore esautorazione della Santa Sede.

Va notato, infatti, che in primo grado l’ufficio del Promotore di Giustizia, nonché i ranghi del Tribunale, provenivano tutti dalla avvocatura italiana, con vari incarichi in Italia. Diddi affianca alla sua attività in Vaticano, quella di avvocato. Tra i suoi clienti, Salvatore Buzzi, condannato a circa 18 anni di reclusione nel caso “Mondo di mezzo” a Roma, noto alle cronache come “Mafia Capitale”. 

E ancora: il giudice  Riccardo Turrini Vita è Direttore Generale della formazione, Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Ministero della Giustizia italiano;  il giudice Carlo Bonzano  è avvocato a Roma, così come il giudice Paolo Papanti Pellettier, che risulta anche essere  Presidente del Tribunale Magistrale di prima istanza dell’Ordine di Malta, e che, pur avendo specialità di diritto civile ed ecclesiastico, è stato giudice istruttore delle indagini su Cecilia Marogna.

Lavorano come avvocati a Roma anche i Promotori di Giustizia Roberto Zannotti e Gianluca Perone.

Sono tutti professionisti con esperienza in vari ambiti del diritto italiano. L’ordinamento vaticano, tuttavia, ha come riferimento il diritto canonico, e dunque il legame così forte con l’Italia rischia di essere controproducente. Non solo. Le nuove disposizioni in materia giuridica hanno portato a un ritorno indietro delle norme, permettendo a tutti i giudici in Vaticano di essere part time, andando contro alla richiesta del Consiglio di Europa che voleva che almeno uno dei giudici e dei promotori fosse dedicato a tempo pieno al tribunale.

Insomma, al di là della vaticanizzazione della Santa Sede, il rischio è quello di una italianizzazione, e dunque una provincializzazione, rispetto alla Santa Sede, che ha un ordinamento peculiare e una visione universale. Il Tribunale del Papa rischia, così, di trasformarsi in una procura dell’agro romano, come ebbe a notare anche un editoriale di Giuliano Ferrara per Il Foglio.

L’appello di Becciu

Il cardinale Becciu ha presentato un appello più articolato, in quasi 40 pagine, ribadendo tutte le tesi difensive e mettendo in luce le incongruenze della sentenza. A partire dal peculato per cui il Cardinale è stato condannato, che non ha ragione di essere sia perché non c’è stato alcun passaggio di denaro diretto ad alcun famigliare del cardinale, e perché il denaro destinato dalla Segreteria di Stato al tempo in cui Becciu era sostituto non andava alla cooperativa SPES, di cui il fratello del cardinale era presidente, ma direttamente alla Caritas. Tra l’altro, delle due tranche, quella di 25 mila euro è stata utilizzata per comprare una macchina per la panificazione, dato che l’altra era stata danneggiata da un incendio, e quella di 100 mila era destinata ad un progetto ed è rimasta in pancia alla stessa Caritas.

Inoltre, la difesa Becciu nota che il denaro investito non ha mai riguardato l’Obolo di San Pietro, come era emerso anche in dibattimento.

I difensori hanno notato che “in particolare, è emerso che la sottoscrizione iniziale del fondo Athena, quando ancora era denomitato Athena Capital Commodities Fund era stata decisa dall’Ufficio amministrativo e dai consulenti esterni della Segreteria di Stato in materia di investimenti, durante la due diligence relativa all’investimento Falcon Oil. Anche la prosecuzione dell’investimento nel fondo Athena GOF, poi, era stata istruita dall’Ufficio amministrativo, competente per gli investimenti della Segreteria di Stato, e valorizzata dall’Ufficio con l’appunto dell’8 luglio 2014, già in atti”.

Dunque, si legge ancora nella richiesta di appello, “la condanna del Cardinale Becciu in relazione al peculato per la sottoscrizione nel fondo Athena (istruita e perorata dall’ufficio amministrativo), dunque, contrasta pienamente con l’archiviazione di Monsignor Perlasca, responsabile dell’Ufficio Amministrativo, inizialmente indagato per tale investimento, poiché l’investimento è stato pensato e istruito proprio dall’ufficio da lui diretto ed è stato dallo stesso suggerito”.

Gli avvocati hanno poi ribadito l’illogicità della truffa aggravata con destinazione dei soldi a Cecilia Marogna, che tra l’altro sono stati erogati quando il Cardinale non era più sostituto.