La società della Marogna, la Logsic Humanitarne Dejavnosti D.O.O. pagherà una multa di 40 mila euro e ha ricevuto divieto di intraprendere contratti con le pubbliche autorità per due anni.
Inoltre, il Tribunale, ha ordinato la confisca per equivalente delle somme costituenti corpo dei reati contestati, per oltre 166.000.000 di euro complessivi. Gli imputati sono stati infine condannati, in solido tra loro, al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, liquidati complessivamente in oltre 200.000.000,00 euro.
I risarcimenti danni
Tra i danni da conteggiare, anche 80 milioni di danni non patrimoniali per la Segreteria di Stato, mentre la sentenza punta anche a recuperare tutto il denaro destinato da Becciu alla Caritas di Ozieri e quello destinato alla sedicente esperta di intelligence Cecilia Marogna. Le confische saranno esecutive a partire dalla sentenza di secondo grado, sebbene vi sia una norma che prevede la possibilità di confiscare i proventi del reato già dopo la sentenza di primo grado.
Con le casse vaticane sofferenti, rese ancora più sofferenti dal provvedimento di inquadramento dei giudici vaticani nei ranghi dirigenziali della Curia, con relativo stipendio (decisione arrivata da Papa Francesco a due settimane dalla sentenza), recuperare il denaro è, per la Santa Sede, una necessità.
Tanto più che il pool di avvocati messo in campo in questo processo, capeggiato dalla celeberrima Paola Severino in difesa della Segreteria di Stato e dall’altrettanto celebre Gian Maria Flick per l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, non è stato certamente a buon mercato. Tuttavia, per le confische serve innanzitutto che la sentenza vaticana venga riconosciuta efficace da un ordinamento estero. Serve, cioè, la “delibazione”.
Le critiche al processo
Non sono mancate, in questi mesi, le critiche al processo, sulla forma, i contenuti, le modalità con cui questo è stato portato avanti, inclusi i vulnera al diritto canonico – e vale la pena qui di ricordare che Papa Francesco è intervenuto con quattro rescritti cambiando in corsa le regole delle indagini. L’ultima, argomentata critica, viene da un libro, “Il Proceso Becciu. Un’analisi critica”. Edito da Marietti, è firmato dalla professoressa Geraldina Boni con Manuel Ganarin e Alberto Tomer.
Geraldina Boni è una canonista di grande esperienza, allieva del professor Giuseppe Dalla Torre, che nelle fasi del processo non ha mai mancato di mettere in luce come il modo stesso in cui veniva portato avanti il procedimento aveva delle pecche non indifferenti. Ma il suo ragionamento si era esteso, con il libro Finis Terrae per lo Ius Canonicum, mostrando come, nel corso degli anni, si era proprio abbandonata la via della comprensione giuridica e canonica della Santa Sede.
In questo libro con Tomer e Ganarin mette a sistema queste critiche, fino ad arrivare a definire le ripercussioni del processo sul piano della credibilità internazionale della Santa Sede. Gli autori parlano di “una crisi annunciata”, che non riguarda solo il giudizio penale, ma anche “il riflesso che esso ha sulla fiducia internazionale del foro vaticano, sulla validità delle clausole contrattuali, sulla vigilanza in materia economica e finanziaria”.
Il risultato del processo, infatti, è che il foro vaticano “non appare più come un foro imparziale e rispettoso delle regole fondamentali del diritto”, con la conseguenza che “sarà un progressivo abbandono di tale clausola nei contratti internazionali”.
Gli autori mettono in luce come sia in una fase critica anche l’adesione a Moneyval, il comitato del Consiglio d’Europa che valuta l’aderenza ai principi di trasparenza finanziaria dei Paesi che aderiscono al programma. Moneyval aveva dato rapporti generalmente positivi del percorso della Santa Sede, fino agli ultimi, quando – al di là della narrazione – venivano mostrate luci ed ombre di un sistema vaticano che aveva persino messo a rischio lo scambio di intelligence del Gruppo Egmont.
Boni, Ganarin, Tomer non mancano di mettere in luce le responsabilità di Francesco, che ha “potestà suprema, ma non assoluta”, ma che con le sue mosse ha messo in crisi il generale equilibrio tra diritto canonico e diritto vaticano, perché il diritto canonico “non è un corpo estraneo, ma la prima fonte normativa dell’ordinamento vaticano”.
E così, il processo diventa “un banco di prova per l’intero assetto istituzionale”, tanto che ci si chiede se “la giustizia vaticana può ancora dirsi conforme ai parametri internazionali condivisi, oppure sta scivolando verso una forma opaca di giurisdizione d’eccezione?”.
Infine, gli autori mettono in luce che “non è in discussione la sovranità della Santa ma l’uso che di essa viene fatto. La sovranità non può trasformarsi in arbitrio. Essa deve essere esercitata nel rispetto dei diritti umani, anche perché è proprio la Santa Sede a farsi portatrice, nel mondo, della tutela della dignità della persona”.
La vaticanizzazione della Santa Sede
I nodi critici messi in luce dal libro “Il Processo Becciu” mostrano le crepe di quella che è stata chiamata “la Vaticanizzazione della Santa Sede”. Il processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato ha visto, in qualche modo, il diritto dello Stato vaticano prevalere sulla Santa Sede, tanto che alla Santa Sede sono stati applicati criteri statali che semplicemente non le appartengono. La sentenza da cui si parte, lunga 800 pagine, non è riuscita a chiudere la vicenda, ma ha piuttosto aperto un altro dibattito, che riguarda l’efficacia stessa di un Tribunale Vaticano in cui il Papa interviene con quattro rescritti ad un processo in corso per – è la spiegazione del promotore di Giustizia Alessandro Diddi – “riempire i vuoti normativi”. la sentenza ha anche creato nuove comprensioni giuridiche, che a volte sembrano confondere o mescolare diritto canonico, legge dello Stato della Città del Vaticano e giurisprudenza italiana, fino ad arrivare alla teorizzazione che ci possa essere peculato solo per il fatto di aver usato male i fondi, senza che ci sia un vantaggio personale ed ha, soprattutto, aperto la strada a chi, in realtà, vuole colpire l’indipendenza stessa della Santa Sede.
Le luci e le ombre della sentenza
Tutti si sono appellati alla sentenza, incluso il promotore di Giustizia. Ma allora c’è da entrare nelle pieghe della sentenza. Per esempio, a Becciu viene contestato un peculato, ovvero una erogazione di fondi della Segreteria di Stato, che erano nella disponibilità decisionale del Cardinale quando questi era sostituto della Segreteria di Stato, alla società SPES della Caritas di Ozieri. È stato accertato che, in realtà, nessuno dei fondi destinati alla Caritas sia andato a vantaggio della famiglia del Cardinale o del Cardinale stesso.
Eppure, la sentenza arriva a parlare di “un uso illecito dei fondi” anche se non c’era finalità di lucro”, perché – secondo il tribunale – il fatto che non ci sia stato un vantaggio non tocca “la fattispecie di peculato prevista dall’ordinamento vaticano”. È un passaggio che sembra inneggiare ad una sorta di processo morale, in cui viene condannata la “volontà di usare i beni in contrasto con gli interessi della pubblica amministrazione di cui egli appartiene”.
Poi, c’è l’anomalia di un processo, che nasce da una denuncia dell’Istituto per le Opere di Religione. La sentenza richiamava tutti i passaggi proprio a partire dalla segnalazione del Direttore Generale Gianfranco Mammì, del 2 luglio 2019. Quello che è emerso dal processo è che la Segreteria di Stato aveva chiesto allo IOR un anticipo – che sarebbe stato restituito ad interesse – per superare una sofferenza finanziaria riguardo l’immobile di Londra. Lo IOR si prende tempo, per dire di prima dice sì e poi i improvvisamente ritrattare, decidendo infine di denunciare e sottolineando come l’operazione avessse punti oscuri arrivando ad attaccare addirittura l’Autorità di Informazione Finanziaria per la clearance.
È un po’ come se la Banca d’Italia denunciasse il governo che le chiede aiuto per poi andare a contrastare l’autorità di intelligence giunta in aiuto del governo.
La denuncia dello IOR ha dunque l’effetto di scardinare un intero sistema vaticano. Lo IOR è controllato dall’AIF, che viene bloccato di fatto nella sua attività di intelligence dalle perquisizioni scaturite dalla denuncia. La Segreteria di Stato si trova a dover ristrutturare il prestito, dopo aver già dovuto ridefinire una situazione difficile al fine di non perdere i capitali di investimento. Il promotore di Giustizia diventa una sorta di deus ex machina, dotato di poteri speciali e autorizzato dal Papa ad agire in maniera sommaria.
Nella sentenza, si legge che “il Promotore di giustizia precedeva poi all' assunzione di numerosi testimoni, all'interrogatorio di alcuni degli imputati, che presentavano peraltro anche memorie difensive e all'inoltro di commissioni rogatorie alle Autorità giudiziarie di alcuni Stati esteri (Italia, Svizzera, Gran Bretagna, Emirati Arabi Uniti, Lussemburgo, Repubblica Dominicana, Baliato di Jersey), che trasmettevano - nel corso del tempo - la documentazione richiesta, o almeno parte consistente di essa, tra cui anche i cellulari e gli apparati informatici di alcuni degli imputati. Altre informazioni venivano acquisite tramite l 'A.I.F. e i canali di collaborazione fra le autorità di polizia”.
L’Autorità di Informazione Finanziaria
Coinvolta dalla Segreteria di Stato, l’Autorità di Informazione Finanziaria chiede al sostituto Edgar Pena Parra, che nel 2018 ha sostituito il cardinale Angelo Becciu come numero due, di inviare una segnalazione di transazione sospetta per avviare le indagini. A quel punto, la Segreteria di Stato vuole prendere il controllo dell’immobile, rilevandolo da Torzi. Resta sempre sullo sfondo la possibilità di una denuncia, ma l’obiettivo primario è quello di salvare l’investimento, evitando sia il danno reputazionale, sia che Torzi, esercitando il controllo completo delle azioni, possa vendere l’immobile e far realizzare una perdita alla Segreteria di Stato.
Una prima ristrutturazione viene sconsigliata, una seconda viene approvata, fermo restando che si sarebbero continuate le indagini. Ma approvato è una parola sbagliata. L’AIF non può sostituirsi, nelle decisioni, alla Segreteria di Stato. Ma collabora, perché c’è un profilo di aiuto alle istituzioni che viene sempre rispettato.
Scrive il Tribunale: “Non è invece condivisibile, come si è detto, la conclusione della Difesa secondo cui l'A.I.F. non è né libera né indipendente, ma vincolata all'obbligo di collaborazione nei rapporti con gli altri Enti della Santa Sede e dello Stato non sottoposti a Vigilanza (cioè diversi dallo 1.O.R.), mentre invece sarebbe totalmente libera di gestire a suo arbitrio ‘la disseminazione delle informazioni’ cioè, nel caso che qui interessa, le comunicazioni al Promotore di giustizia. Si tratta di una posizione paradossale e insostenibile”.
Secondo il Tribunale, insomma, se l’AIF è indipendente non può essere anche dipendente allo stesso modo, non considerando che questa collaborazione istituzionale non intacca il profilo di indipendenza.
Anzi, l’indipendenza viene mantenuta proprio nel lavoro di intelligence, che include anche la decisione di segnalare o meno, e quando, al promotore di giustizia una eventuale ipotesi di reato. Ma questo non viene accettato dal Tribunale, secondo cui l’AIF manca proprio nel momento in cui non segnala subito al promotore di Giustizia, sebbene poi non ci sia dolo in nessuna delle azioni. Addirittura, si arriva a dire che l’AIF aveva agito in malafede. Eppure, è provato che l’AIF avesse interlocuzioni costanti con l’autorità superiore.
È un principio che mette l’apparato giuridico dello Stato al primo posto, come se i giudici dovessero essere informati sempre anche di attività di intelligence e di governo, e come se poi dovessero punire se questa attività viene svolta autonomamente.
Alla fine, i dirigenti dell’AIF risultano condannati per abuso di ufficio per non aver inoltrato una denuncia al promotore di Giustizia. Tutte le informazioni, però, provenivano da canali attivati dall’AIF, che aveva svolto una grande attività di intelligence in un tempo e con mezzi limitati. Se davvero si fosse voluto occultare, perché dunque si sarebbe dovuto aprire un fascicolo? E, alla fine, se davvero si fosse voluto favorire qualcuno, perché in entrambe le possibilità di ristrutturazione proposte alla Segreteria di Stato dall’AIF si parla comunque di un prosieguo delle indagini che non escludono un inoltro della denuncia al promotore di Giustizia?
Le altre posizioni
Il Tribunale afferma con certezza che Raffaele Mincione, primo gestore del fondo che avrebbe dovuto investire in Falcon Oil e che aveva poi poi investito nel palazzo di Londra, facesse i propri interessi, nella misura in cui il proprio contratto di fatto gli consentiva, ma il Tribunale considera anche evidente il rapporto personale con Gianluigi Torzi, il broker che poi lo sostituirà nella gestione dell’immobile.
Per cedere le proprie quote e la propria gestione, Mincione otterrà 40 milioni di euro, tramite un accordo che secondo il Tribunale l’accordo era stato in qualche modo orchestrato insieme a Torzi. Quest’ultimo, da parte sua, avrebbe raggirato la Segreteria di Stato prendendo le uniche mille azioni con diritto di voto che controllavano l’immobile, estromettendo di fatto la Santa Sede dal controllo, motivo questo per cui è stato condannato insieme all’avvocato Squillace.
La sentenza parla anche di una connivenza di interessi tra Enrico Crasso, il broker che per conto di Credit Suisse ha gestito per anni il patrimonio della Segreteria di Stato e di Mincione sin dall’inizio dell’affare, quando si cerca, secondo il tribunale, di portare avanti l’investimento in Falcon Oil sebbene presentasse dei profili di rischio.
E poi c’è la posizione di Fabrizio Tirabassi, officiale della Segreteria di Stato parte dell’amministrazione, che viene messo sulla graticola per un suo patrimonio personale ingente, ma di cui non si definisce l’illiceità. Lo stesso Tirabassi riceveva delle retrocessioni da un contratto che aveva con la banca svizzera UBS, autorizzato dalla Segreteria di Stato, ma questo non costituisce in sé un reato.
Tirabassi tuttavia viene condannato sia per il riciclaggio di due milioni in Svizzera pagati nel 2011 come fees autorizzate dalla Segreteria di Stato che, insieme a Becciu e Crasso per aver investito 200 milioni in un fondo speculativo.
Secondo la sentenza, tuttavia, “non può certo negarsi che l'uso in modo illecito dei beni della Chiesa si sia risolto in un tanto evidente guanto significativo vantaggio per Mincione ed i suoi sodali quale diretta conseguenza della condotta illecita posta in essere da S.E.R. Becciu, sicché a nulla rileva che egli non abbia inteso agire con finalità di lucro, né che non abbia conseguito alcun vantaggio. L'uso illecito che integra il reato di peculato è quindi quello che viola la normativa di diritto canonico che regola l'amministrazione dei beni ecclesiastici, tra cui viene in rilievo, in particolare, il canone 1284 la cui applicabilità all'amministrazione dei beni della Segreteria di Stato è stata riconosciuta dallo stesso Cardinale Becciu all'udienza del 5 maggio 2022”.
La sentenza di Londra
All’appello del 22 settembre si arriva anche con la spada di Damocle della decisione della Commercial Court di Londra, sollecitata da Raffaele Mincione. Questi aveva chiesto alla Commercial Court londinese di pronunciarsi in merito alla sua buona fede, alla sua presunta condotta fraudolenta, alla sua presunta truffa. E la Corte ha accettato le tesi di Mincione in 29 dichiarazioni su 31, lamentando solo una mancanza di trasparenza nella comunicazione e quindi rifiutando di dichiarare la buona fede, sostenendo però che non si trattava di una dichiarazione sul merito dell’operazione in sé, ma solo sulla base della discussione.
La sentenza di Londra cala come uno scossone sull’appello del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, che comincerà – è notizia delle ultime ore – il prossimo 22 settembre. Perché, di fatto, Mincione ottiene dal tribunale inglese una patente giuridica internazionale che testimonia che no, non c’è stata frode. Anzi.
Ovviamente, ci sono due modi di vedere la sentenza. Da parte della Santa Sede, si rimarca che la Commercial Court di Londra abbia riconosciuto che Mincione non abbia agito in buona fede. Il fondo di Mincione WRM invece enfatizza come la sentenza abbia rigettato le accuse di frode e di disonestà.
II processo alla Commercial Court era stato avviato il 24 giugno 2024 a seguito di una denuncia civile presentata nel 2020 in Inghilterra da Raffaele Mincione, il quale voleva che fosse dimostrata la sua buona fede nel gestire l’investimento di Londra, e che non c’era stata alcuna condotta fraudolenta da parte sua.
La Corte di Londra non ha riscontrato prove sufficienti per sostenere le accuse di frode, cospirazione o disonestà nei confronti di Mincione e delle società a lui riconducibili; ha respinto le accuse di collusione con Gianluigi Torzi, perché la Corte ha stabilito che non era dimostrabile che Mincione fosse consapevole delle intenzioni fraudolente di Torzi.
La sentenza ha tuttavia criticato Mincione per una sorta di carenza di comunicazione nei confronti della Segreteria di Stato, giudicando fuorviante la modalità con cui aveva presentato la valutazione dell’immobile di 275 milioni di sterline. Tuttavia, queste accuse non evidenziano dolo o mala fede rilevante.
Insomma, la sentenza dà sostanzialmente ragione a Mincione su tutti i punti, tranne su quello della buona fede. Ed è qui che le due interpretazioni della sentenza divergono.
Il comunicato di WRM si sofferma in particolare sul rigetto delle accuse di frode e disonestà, mentre l’articolo di Vatican News sottolinea piuttosto le osservazioni critiche verso la condotta di Mincione e dei ricorrenti.
Ma Vatican News non distingue nemmeno tra le criticità contrattuali e le accuse penali, mentre interpreta i rilievi del giudice in modo severo in senso assoluto, cosa che invece la sentenza non sottolinea. Inoltre, la Corte ha rigettato le accuse di frode e cospirazione, e questo non viene specificato nei media vaticani.
È una sentenza che getta comunque pesanti ombre sulla sentenza vaticana, dove tra l’altro si descrive una presunta orchestrazione ai danni della Santa Sede da parte di Torzi e Mincione al momento in cui Mincione cederà le sue quote e queste passeranno alla gestione di Torzi nel 2018.
Insomma, al momento dell’appello, non si potrà non tener conto di questa sentenza. Dove si legge, tra l’altro: “Gli Attori … beneficiano anche di una serie di conclusioni in questa sentenza, non oggetto delle dichiarazioni richieste, che respingono accuse molto gravi mosse contro di loro. In questa sede ho potuto e colto l'opportunità di trattare particolari accuse, tra cui quelle di disonestà e di cospirazione. Gli Attori hanno diritto a tali conclusioni in relazione a tali accuse”.
Le intercettazioni
Altra spada di Damocle sono le intercettazioni, pubblicate sulla stampa italiana e internazionale, che mettono in luce come la testimonianza di monsignor Alberto Perlasca sia stata guidata – dato tra l’altro che era emerso anche durante il dibattimento, tanto che poi si è detto che la testimonianza di Perlasca non era considerata decisiva per la sentenza. E già nel dibattimento era stata sentita Francesca Immacolata Chaouqui, e Genoveffa Ciferri, mentre il promotore di Giustizia ammetteva di aver ricevuto diversi messaggi dalla Ciferri senza però mai entrare nel merito delle questioni. Le intercettazioni, tuttavia, potrebbero essere portate dalle difese come prova, fino al punto di poter mettere in discussione l’imparzialità stessa del promotore di Giustizia.
La difesa del cardinale Becciu, che depositato quasi 200 pagine di motivazioni aggiunte, ha chiesto di acquisire le chat tra la lobbista Francesca Immacolata Chaouqui e Genoveffa Ciferri, amica di monsignor Alberto Perlasca, in cui Chaoqui anticipava dettagli dell’inchiesta e interrogatori.
Le chat hanno portato all’apertura di due inchieste penali, una Roma dopo un esposto del cardinale Becciu contro Chaouqui, e l’altra presso il promotore di Giustizia vaticano, dove Chaouqui è accusata di traffico di influenze, falsa testimonianza e subornazione.
Il futuro del tribunale vaticano
Chissà se Leone XIV è stato informato di tutti i rilievi giuridici che colpiscono come una mannaia la Santa Sede con il processo, e come poi il Papa deciderà di procedere. Intanto, c’è un altro testo che va considerato, sempre di Boni, Ganarin e Tomer. Si intitola La lesione dei principi di legalità penale e del giusto processo nell’ordinamento canonici. Quali ripercussioni giuridiche nel diritto italiano? (della Collana Seminario Giuridico dell’Università di Bologna).
Il testo prende le mosse dal modo in cui è stata affrontata la piaga degli abusi, oggetto di una “attenzione massmediatica senza precedenti”, che ha portato sull’onda della necessità di dare giustizia, a “numerosi provvedimenti di carattere emergenziale” che hanno leso “il nucleo fondamentale di garanzie dei soggetti coinvolti”.
Nel testo si prendono anzitutto in esame il suddetto istituto della deroga alla prescrizione e alcune prassi giudiziarie decisamente discutibili, che gettano le basi per l’applicazione retroattiva della legge penale più sfavorevole. Notano gli autori: “Assumendo le acquisizioni del diritto e della giurisprudenza italiana quali termini di comparazione, si è rilevato come nell’ordinamento canonico si manifestino, in conformità alla linea della “tolleranza zero” che gli ultimi pontefici hanno inteso adottare nel contrasto agli abusi e all’insegna di un deciso sbilanciamento a favore della presunta parte lesa, allarmanti cedimenti sui capisaldi della legalità penale e del giusto processo: tanto inimmaginabili quanto inaccettabili nei sistemi giuridici statali. Un trend che si è consolidato parimenti nell’ordinamento, strettamente correlato a quello della Chiesa benché secolare, dello Stato della Città del Vaticano: come attesta eloquentemente il processo che ha visto coinvolto, tra gli altri, il cardinale Giovanni Angelo Becciu”.
Il grande tema è se il diritto vaticano debba conformarsi al diritto degli Stati secolari, e in particolare mutuando le decisioni della giurisprudenza italiana, o debba invece stabilirsi in maniera autonoma e indipendente. Papa Francesco, con tre riforme del sistema giudiziario, era andato a toccare un mondo che andava, sì, migliorato, ma non distrutto. Era un diritto che doveva avere una sua autonomia, per avere una sua credibilità. Ora, invece, la credibilità è a rischio. E, mentre ci si prepara all’appello, si comincia a pensare a come sarà gestito il fatto che ci sarà sempre lo stesso promotore di giustizia. Anche questo rischia di minare la credibilità del processo.