Koch nota che il Concilio di Nicea definì il credo in Gesù Cristo, ma menzionò il credo nello Spirito Santo solo in termini generici, e solo con il successivo Concilio di Costantinopoli si definì in dettaglio il credo riguardante lo Spirito Santo, che portò alla formulazione del dogma della Santa Trinità.
Koch va più nel dettaglio, guarda alla parola greca homoousios, della stessa sostanza, che è la confessione di Cristo come interpretazione della comunicazione tra il Figlio e il Padre”, e questa parola non rappresentava una “ellenizzazione” della fede, come molti storici protestanti hanno successivamente accusato.
Koch rimarca che la confessione cristologica di Nicea ha più somiglianze che differenze con la confessione di Cristo presentata nel Nuovo Testamento, e per questo va detto che “il centro più profondo della figura storica di Gesù di Nazareth si trova nella predicazione di Gesù come Figlio”, e il suo continuo contatto con il Padre può essere davvero descritto come homoousios.
Insomma, con questa parola il Concilio di Nicea non ellenizzò la fede cristiana, ma – afferma Koch – “ha espresso l’incomparabile novità e unicità che è visibile nella relazione tra il Figlio e il Padre come attestato nella Bibbia”, e quindi “si deve più accuratamente dire che c’è stata una cristianizzazione del Greco attraverso una ellenizzazione del Vangelo”, e alla fine si deve considerare ancora più accurato pensare che fu Ario, e non il Concilio di Nicea, ad ellenizzare la fede in Dio.
Anche perché – aggiunge il cardinale Koch – il Concilio di Nicea del 325 trasformò il concetto di Dio, che prima era “caratterizzato da una assunzione di una stretta e unità con relazioni, che è il motivo per cui la molteplicità presenta una realtà inferiore”, e che con Nicea si apre all’idea di una “molteplicità del concetto di Dio stesso”.
Non solo. Il concetto trinitario di Dio rompe la sola dominazione del pensiero di sostanza, mentre la relazione è ora considerata come “un modo egualmente sostanziale di realtà come sostanza” e “Dio non è più considerato una unità monadica, ma piuttosto una unità in relazione”, mentre “c’è una originale e bellissima diversità che vive nella Divina Trinità”, che preclude però “un pluralismo disconnesso”.
Il Cardinale Koch parla di Dio come un’icona della Trinità, come descritto dall’ecclesiologia cattolica. E così “come l’unità di Dio può essere riconosciuta nella trinità delle persone, anche l’unità della Chiesa universale può essere riconosciuta e realizzata nella molteplicità delle Chiese locali”, e “come nella trinità la triunità delle persone non nega e nemmeno produce l’unità della sostanza divina, anche qui la Chiesa universale è qualcosa di qualitativamente differente da una mera federazione di chiese individuali indipendenti, anche se consiste ed è fatta da Chiese locali”.
Il Concilio Vaticano II – aggiunge il Cardinale Koch – combina il plurale ‘Chiese’ con il singolare ‘Chiesa’ e questo modo di porre le cose include l’intero problema ecumenico, che “si trova nel fatto che il modello cattolico dell’unità della Chiesa universale e della molteplicità delle Chiese locali non può essere semplicemente trasferito e applicato a quelle Chiese e comunità che sono arrivate ad essere in divisione, dato che le divisioni sono fondamentalmente estranee alla più profonda natura di Dio”.
Cosa fare dunque per progredire nell’unità? Il capo del Dicastero ecumenico vaticano mette in luce due modelli. Il primo è il cosiddetto “ecumenismo di ritorno”, che rischia comunque di confondere “la ricerca di unità con l’uniformità e di assolutizzarlo”.
E poi c’è il modello descritto dal Cardinale Walter Kasper (predecessore di Koch alla guida del dicastero) che è quello della “federazione ecumenica”, laddove “tutte le Chiese che sono ancora separate riconoscerebbero le altre Chiese e si unirebbero a loro sulla base di un solo battesimo, seppur preservando l’attuale status quo.
È un modello “favorito in tutto il mondo protestante”, ma “non è concepibile come soluzione del problema ecumenico da una prospettiva cattolica e ortodossa”, perché “la sua assolutizzazione della diversità rappresenta un triteismo ecclesiologico”.
C’è poi la terza via, una via tra “la dittatura e l’anarchia” che porta il movimento ecumenico a “riconsiderare la relazione fondamentale tra l’unità e la molteplicità in modo fondamentale, e cioè alla luce del mistero trinitario”, e per questo il 1700esimo anniversario di Nicea è “una particolare sfida ed opportunità”, perché ci ricorda che “l’ecumenismo è fondamentalmente questione di fede, e che l’unità della Chiesa non può essere riscoperta senza la verità di fede”, perché la sua restaurazione “richiede accordo sul contenuto essenziale della fede, non solo con le Chiese di oggi, ma anche con le Chiese del passato, e – soprattutto – con le sue origini apostoliche”.
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Il cardinale Koch spera dunque che il 1700esimo anniversario del Concilio di Nicea “sia celebrato da tutta la cristianità in uno spirito ecumenico, e che il Credo venga ripreso nelle compagnie ecumeniche”.