Beran, racconta il professor Šebek, arriva a Roma dopo una “stagione di speranza” in Cecoslovacchia, anche se poi la politica ecclesiastica non era cambiata molto. Casaroli arriva in Cecoslovacchia nel 1963, e Beran accetta di prestare giuramento di fedeltà allo Stato cecoslovacco, venendo così rilasciato dai domiciliari in cui si trovava a partire dal 1949, pur rimanendo sotto sorveglianza stretta, e non potendo partecipare ai lavori del Concilio Vaticano, perché l’amministrazione statale consentiva la partecipazione solo a quanti erano attivi nella cura pastorale – e infatti l’unico vescovo ceco a partecipare alle sessioni conciliari fu František Tomášek, vescovo consacrato in segreto dell’arcidiocesi di Olomouc (dalle diocesi slovacche parteciparono tre vescovi), mentre gli altri vescovi continuavano a essere rinchiusi.
I negoziati del 1963 avevano portato solo alla scarcerazione dei vescovi, compreso Beran, mentre nel 1965 Paolo VI decide di annoverare Beran tra i nuovi cardinali. Beran, però, dopo aver ricevuto le insegne cardinalizie, non poté tornare a Praga, rimanendo in esilio, e venendo sostituito proprio da Tomášek.
Arrivato a Roma, e stabilitosi nel Collegio Nepomuceno, Beran cominciò a parlare. Nell’agosto 1965 intervenne alla conferenza dell’associazione Pro Civitate Cristiana, con un intervento sul “Martirio della Chiesa”, e parlò in una conferenza stampa delle differenze tra nazismo e comunismo, sottolineando che il secondo aveva “un modo di combattere la religione più raffinato e quindi più pericoloso”.
Si preparava così a quello che sarebbe stato il suo intervento alla sessione conclusiva del Concilio Vaticano II, nel settembre 1965, sulla libertà religiosa. E fu lì che Beran tenne il suo intervento, parlando proprio delle esperienze di persecuzione confessionale che avevano luogo nell’allora Cecoslovacchia.
“Sembra, quindi – disse il cardinale - che nella mia patria la Chiesa cattolica continui a soffrire per ciò che è stato fatto in passato in suo nome contro la libertà di coscienza, come fu nel caso del rogo del sacerdote Jan Hus avvenuto nel XV secolo o dell’imposizione esterna con cui nel XVII secolo gran parte del popolo ceco dovette di nuovo abbracciare la fede cattolica in seguito all’applicazione del principio ‘Cuius regio – eius religio’. Il potere secolare, anche se vuole servire la Chiesa cattolica, o perlomeno finge di farlo, con tali azioni provoca in realtà una ferita permanente e nascosta nel cuore del popolo. Questo trauma ha frenato il progresso della vita spirituale, fornendo e continuando a fornire ai nemici della Chiesa un facile pretesto per sollevare delle obiezioni”.
Il cardinale cercava anche una nuova interpretazione di Hus, e in effetti il discorso di Beran fu pronunciato in occasione del 550esimo anniversario del rogo di Hus, inserito tra gli avversari culturali dall’UNESCO e dal Consiglio Mondiale della Pace.
Le autorità comuniste cercarono di mostrare il legame tra la vita e le opere di Hus e le tradizioni rivoluzionarie e progressiste del regime cecoslovacco, mettendo in secondo piano i progetti di carattere ecclesiastico.
Ovvio che i servizi segreti cecoslovacchi seguissero con attenzione l’intervento di Beran, che ebbe un impatto notevole. Il cardinale continuò, nei suoi viaggi successivi, a dedicarsi al tema della libertà di culto, fino a quando morì nel maggio 1969. E anche la figura di Hus fu rivalutata.
Diverse personalità ripresero questi temi, a partire da Giovanni Paolo II.
In particolare, il tema dell’eredità di Hus fu ripreso da Tomáš Špidlík, legato al Collegio pontificio e poi diventato cardinale, che si espresse su Hus in varie situazioni, raccontando anche dell’USO improprio del nome di Hus.
Ma – nota il professor Šebek – anche altri riportarono il tema di Hus al centro, come
Stefan Swieżawski, docente presso l’Università Cattolica di Lublino e amico personale di Papa Giovanni Paolo II, o anche monsignor Thomáš Halik, i quali suscitarono un dibattito su come
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valutare in modo più positivo la personalità di Jan Hus.
Fu una marcia lunga, che portò alla riapertura per una rivalutazione di Hus che si lanciò definitivamente dopo il 1989 e la caduta del Regime comunista, fino a quando lo stesso Giovanni Paolo II, parlando a Praga il 21 aprile 1990 davanti ai rappresentanti della cultura, agli studenti e ai responsabili delle confessioni non cattoliche sottolineò che “sarà compito degli esperti - in primo luogo dei teologi cechi - definire con maggiore precisione il posto che spetta al Maestro Jan Hus tra i riformatori della Chiesa accanto ad altre celebri figure del Medioevo boemo come Tomáš da Štítny o Jan Milíč da Kroměříž. In ogni caso, a prescindere dalle opinioni teologiche che sosteneva, non si può confutare l’integrità della vita di Hus e il suo impegno per l’istruzione e l’elevazione morale della nazione”.
Il discorso lanciò una commissione per lo studio della vita e delle opere di Hus, in cui un ruolo importante fu svolto dal cardinale Vlk, che, avendo avuto una formazione di storico e archivista, era particolarmente interessato alla questione hussita.
Giovanni Paolo II continuò a seguire il movimento, sottolineando come fosse necessario offrire “una nuova prospettiva sugli eventi problematici della storia della Chiesa”, preparando la strada alla dichiarazione Mea culpa, quando domenica 12 marzo 2000, ossia all’inizio del periodo di Quaresima, chiese perdono per le colpe commesse dalla Chiesa cattolica nei 2000 anni della sua esistenza.