Come è sorta questa iniziativa?
“Per caso. Ci si è detti, perché non offrire nel periodo del Natale un bel panettone insieme a dei generi alimentari ai tantissimi migranti che passano al nostro “Centro di Accoglienza Scalabrini” di Reggio Calabria. Più di tremila all’anno ne vengano, dal Marocco, dalla Georgia, Albania, Pakistan, India, Latino america e dai Paesi africani… Il senso dell’integrazione, d’altronde, passa anche attraverso il cibo. Questo, infatti, non è solo nutrimento. E’ anche messaggio: è partecipazione, condivisione, forza di stare insieme.
Ogni nostro panettone, poi, è accompagnato da un autentico messaggio di speranza, stampato a caratteri d’oro. Vi leggete, così: ‘Oggi, milioni di uomini sono assetati di giustizia, costretti a migrare alla ricerca di pane, di pace e di dignità. Natale è Dio che posa la sua dimora tra di noi. E’ adesso. E’ ovunque gli uomini sono amati. Ovunque il povero e lo straniero sono trattati da esseri umani. Ovunque degli avversari si riconciliano. O dove la giustizia, la pace e la solidarietà sono promosse o realizzate… Là, è il Signore che viene!’ Messaggio attualissimo, vivo ed esigente”.
Per quale motivo i migranti scelgono l’Europa?
“Per sfuggire a una vita impossibile, miserabile, per noi impensabile, a causa di guerre, persecuzioni o povertà, in cerca di opportunità di lavoro, di stabilità economica e di una vita migliore. Sono spinti, a volte, anche dalla famiglia come ‘ambasciatori di speranza’. ‘Parti in Europa, aiutaci nella nostra miseria!’: è questo grido, che i migranti risentono nell’anima. Come cavalieri solitari, allora, si spingono in una società difficile, differente e complessa come la nostra, con la voglia di riuscire ad ogni costo. Questo, dopo aver spezzato ogni legame con la loro terra, il loro nido, gli affetti, le abitudini e le tradizioni. Sì, un cammino impressionante di sopravvivenza. A volte è anche il ricongiungimento familiare che li spinge in questa avventura in Italia, in Francia o in Inghilterra. Ritrovarsi là dove altri hanno avuto fortuna”.
Lei è vietnamita: come è giunto in Italia?
“Vengo da un villaggio del Vietnam del sud, Can Tho, in cui vivono tanti migranti fuggiti dal nord dopo la guerra. C’erano, pure, i miei nonni. Quando sono arrivati hanno trovato solo acqua, erba e terra, perché erano alle foci del fiume Mekong. Così, cominciavano a pulire, a preparare e costruire le case e un campo, per piantare il riso. Insomma, iniziavano tutto daccapo con sudore e fatica. Però era l’opportunità di avere la libertà e la vita. Li accompagnavano anche tanti preti, che li aiutavano nella vita spirituale e così hanno costruito anche le chiese.
La mia famiglia era molto religiosa e si viveva con i nonni. Ho avuto tanti zii che hanno consacrato la loro vita per diventare sacerdoti. Quindi, penso che la mia vocazione nasca dai loro esempi e dalla loro preghiera per me. Ogni giorno i miei genitori mi portavano in chiesa per la Messa delle 4.30 del mattino e alla sera di solito si pregava insieme il Rosario. Ecco una grande ricchezza spirituale, che aiutava il mio desiderio di diventare prete. A 18 anni sono entrato in seminario in Vietnam con altri 27 giovani”.
E perché è diventato scalabriniano?
“Poi ho cominciato a conoscere il carisma scalabriniano, per diventare missionario per migranti nel mondo. Così, dopo tre anni mi hanno mandato nelle Filippine. Era la prima volta che vivevo lontano da casa, sentivo forte la mancanza della famiglia, tuttavia non ho perso l`amore per la mia vocazione. Così, nelle Filippine incontravo tante cose nuove: la cultura, la tradizione, la lingua, il cibo e le persone. Un altro mondo. Mi davo coraggio dentro di me, pensando ai tanti migranti che affrontano e combattono le stesse mie difficoltà. Credo che il Signore mi aiutava e mi confortava in questo cammino…
Per la teologia, poi, mi hanno inviato a Roma con altri due. Di nuovo, passare da una cultura asiatica a una cultura occidentale fu per me un’enorme difficoltà, sia per la lingua che per la mentalità. Dopo otto mesi di studio intensivo della lingua italiana, iniziavo i corsi di teologia, ma all`inizio non potevo capire quasi nulla… Nel frattempo, essendo all’estero, in Vietnam, nel mio paese, cancellavano tutti i miei documenti, e mi restava in mano unicamente il passaporto. Era come fossi senza radici. Senza identità, nella mia stessa terra! In occasione della mia ordinazione a Roma, infine, si era in tempo di Covid: diventai sacerdote senza popolo, senza ospiti e senza famiglia.
Una celebrazione privata. Come uomo avvertivo molta tristezza, ma come missionario mi sentivo pieno di coraggio e di gioia. Sì, per un dono grande e un impegno immenso per la mia vita futura. Dopo l’ordinazione, mi hanno inviato a Reggio Calabria. Certo, ho trovato molto difficile l`inizio. Sembrava tutto nuovo per me nella parrocchia Sant’Agostino, vivendo in una parrocchia multiculturale di calabresi, filippini e tanti migranti.
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Ma guardando i migranti, ricordavo i miei primi passi, quando entravo in seminario e il desiderio di portare il Vangelo a questi fratelli più fragili... Il tema che avevo scelto per la mia vita missionaria era preso dal Vangelo di Luca: ‘Sulla Tua Parola, getterò le reti’. Nel mio difficile cammino, pieno di sfide, sento per davvero di averlo vissuto! Sì, ma con l’aiuto di Dio. Tutto è grazia”.
Se desiderate dare una mano al Centro Migranti a Reggio Calabria o al suo progetto ‘Panettoni della speranza’: IBAN IT69F3608105138258674058684 intestato a Thao Nguyen Thanh.