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Diplomazia pontificia, la volontà di una pace concreta in Ucraina

In due eventi successivi, l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, Segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati, ha parlato della necessità di una pace giusta in Ucraina

Arcivescovo Paul Richard Gallagher | L'arcivescovo Gallagher durante l'evento Arcivescovo Paul Richard Gallagher | L'arcivescovo Gallagher durante l'evento "La profezia della pace", Pontificia Università Urbaniana, 20 gennaio 2023 | AG / ACI Group

Non ci sono segnali che il Papa voglia andare a Kyiv a breve. Ci sono, però, segnali che la diplomazia del Papa guarda all’Ucraina con attenzione, tanto che in due eventi a distanza di un giorno l’uno dall’altro l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati, ha affrontato il tema della pace nel Paese. Una pace che la Santa Sede vuole “concreta”, consapevole che questo possa non essere né quello che vuole il presidente ucraino Volodymir Zelensky, né conforme con gli obiettivi del presidente della Federazione Russa Vladimir Putin.

Importante la nomima dell'arcivescovo Giampietro Dal Toso come nunzio apostolico in Giordania, per la prima volta con sede ad Amman. Dal Toso era fino a quest'anno segretario aggiunto del Dicastero per l'Evangelizzazione dei Popoli.

Nel corso della settimana, è stata pubblicata la World Watch List di Open Doors, che documenta i cristiani perseguitati nel mondo. È un rapporto da guardare con attenzione, perché permette di avere un quadro generale della situazione.

Altre informazioni: la denuncia dell’arcivescovo di Lima sulla situazione in Perù, i ringraziamenti del ministro degli Esteri cubano a Papa Francesco.

                                                FOCUS UCRAINA

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Gallagher all’Urbaniana, “non possiamo leggere la realtà odierna con gli schemi del passato”

Parlando il 20 gennaio ad un evento organizzato da Comunione e Liberazione presso l’Università Urbaniana, l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, ministro vaticano per i Rapporti con gli Stati, ha sottolineato che la realtà odierna non può essere letta con gli schemi del passato, rilanciando dunque il ruolo di una diplomazia che non debba inseguire, ma prevedere le situazioni.

Il convegno, che ha visto anche l’intervento del direttore di Avvenire Marco Tarquinio e di Davide Prosperi, presidente di Comunione e Liberazione, aveva come tema “La profezia della pace”.

Nel suo discorso, l’arcivescovo Gallagher ha guardato indietro agli insegnamenti dei Papi, dalla Pacem in Terris di Giovanni XXIII alla Gaudium et Spes, la costituzione del Concilio Vaticano II, dalla Populorum Progressio di Paolo VI alla Solicitudo Rei Socialis di Giovanni Paolo II.

In ognuno di questi documenti ci sono chiavi di lettura fondamentali per comprendere come costruire la pace, che “non è la semplice assenza di guerra”, che è “un edificio da costruirsi continuamente”, che “non è solo sviluppo, ma anche giustizia, sviluppo e fratellanza”, mentre “la guerra e gli obiettivi militari sono i maggiori nemici dello sviluppo integrale dei popoli”.

Insegnamenti che stridono “con quello che sta accadendo in questo preoccupante periodo storico”, con in particolare la guerra nella “martoriata ucraina che il 24 febbraio prossimo compirà un anno”, ma anche i molteplici scenari di tensione, dove i conflitti interessano direttamente solo alcune aree del pianeta, ma in sostanza interessano tutti.

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Nota l’arcivescovo Gallagher che “nel 2021 per la prima volta le spese militari mondiali hanno superato i 2 mila miliardi dei dollari, il doppio della spesa nel 2000 e più della Guerra Fredda. Il 2,2 per cento delle ricchezze mondiali è destinato a spese mondiali, nonostante contrazione 3,1 per cento dell’economia mondiale a seguito della pandemia”.

E allora, “bisognerebbe domandarsi quanto la spesa per gli armamenti stia contribuendo al conseguimento della pace nel mondo e della sicurezza internazionale. Il paradosso è che la spesa per gli armamenti non riduce insicurezza, ma la fomenta. La ricerca di equilibri di forze spinge ciascuno Stato ad assicurarsi un qualche margine di superiorità nel timore di trovarsi in svantaggio”.

Per il “ministro degli Esteri” vaticano, questo è “un grande scandalo” e bisognerebbe chiedersi “quanto il 2,2 per cento possa essere destinato davvero ad affrontare le minacce alla sicurezza, come la povertà, il terrorismo, i conflitti asimmetrici, il divario digitale, o anche il riscaldamento globale o la diffusione della pandemia”.

L’arcivescovo nota che “non possiamo leggere la realtà odierna con gli schemi del passato. Siamo chiamati ad adottare strategie lungimiranti per evitare approcci miopi a problemi di sicurezza nazionale e internazionali”.

In questa prospettiva, aggiunge, la pace va collegata alla sicurezza ed è “importante chiederci che tipo di sicurezza vogliamo e quali sono i mezzi più efficaci per garantirla”.

Ci vuole “multilateralismo e cooperazione internazionale”, partendo dalla “profonda interconnessione in cui si trova la società”, perché “non si può sostituire la forza della legge con la legge della forza”, e “dobbiamo agire responsabilmente con uno sforzo comune basato sulla consapevolezza che solo agendo insieme possiamo raggiungere nuove soluzione”.

Gallagher nota che “la dinamica nelle relazioni internazionali risponde al rischio di una società sempre più globalizzata che ci rende vicini e non ci rende fratelli”.

Da qui, l’approccio alla sicurezza, perché “alla luce delle minacce odierne”, la sicurezza collettiva “diventa sicurezza sicurezza comune e dunque sicurezza integrale”, andando a collegare la sicurezza con lo sviluppo integrale, il rispetto dei diritti umani, cura del creato”.

È anche un modo di leggere la guerra in Ucraina, perché la legittima difesa combinata al tema della sicurezza collettiva significa “passare dalla competizione alla cooperazione” e “in questa prospettiva si fa strada l’importanza del rafforzamento della cooperazione internazionale”.

Nota Gallagher: “Il noi a livello internazionale prende il nome del multilateralismo”, e questo significa “perseguire un dialogo costruttivo sinceramene orientato verso il bene comune universale”

Ha aggiunto l’arcivescovo Gallagher che è “essenziale l’aspetto educativo”, perché è indispensabile “un processo di educazione alla pace, un processo di solidarietà fondata su sicurezza integrale interdipendenza”, educando “al dialogo che sia aperto e costruttivo”.

Afferma l’arcivescovo: “Non dobbiamo risparmiare sforzi per la cultura della pace, della vita, della cura”.

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Gallagher ai giornalisti: “La Santa Sede disposta ad una iniziativa di pace”

Parlando con i giornalisti dopo l’evento, l’arcivescovo Gallagher ha sottolineato che “la Santa Sede deve essere pronta, deve essere disponibile” a mettersi a disposizione per una iniziativa di pace, ma “in questo momento le ambizioni delle parti in guerra non corrispondono ad una grande iniziativa di pace”, perché al di là di quello che le parti dicono “non sembra che le parti siano pronte o che stiano parlando un linguaggio che uno possa accettare le proposte degli altri. Siamo ancora in una situazione di conflitto, di guerra e questo è il linguaggio di adesso".

L’arcivescovo Gallagher ha anche messo in luce che l’Europa si era un po’ abituata a considerare la guerra impossibile sul suo territorio, ma adesso “abbiamo imparato che siamo poveri esseri umani come tutti gli altri”.

L’arcivescovo ha anche fatto sapere che il Papa ha sempre presente l’invito di andare a Kyiv, “ma credo che voglia compiere questa visita al momento più opportuno e per adesso sembra che non sia il momento”, come testimonia anche quello che è successo durante il Natale ortodosso, con “l’impossibilità di convincere le persone del valore di una tregua”.

Per quanto riguarda i rapporti con la Russia, monsignor Gallagher ha ribadito di avere contatti solo con l’ambasciata presso la Santa Sede e non con altre personalità o gruppi contrari alla guerra. “La popolazione della Russia credo che sostiene la politica del suo governo. Che sia ben informata, questa è un’altra questione…”, ha commentato.

L’arcivescovo ha anche sottolineato che l’Ucraina ha diritto alla giusta difesa, ma che questa “deve essere proporzionata”, e che l’arrivo dei nuovi armamenti porta anche degli interrogativi è che “questi armamenti hanno un costo tremendo”, ma “quello che noi non vogliamo e che credo nessuno vuole è che questo sia propriamente un motivo di inasprimento del conflitto. Vogliamo che questo sia motivo di promozione della pace e aiuta tutte le parti a rendersi conto della gravità della situazione”.

Guerra in Ucraina, Gallagher chiede una pace “concreta”

Parlando ad un evento organizzato dalle cattedre UNESCO lo scorso 19 gennaio, l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, ministro vaticano per i Rapporti con gli Stati, ha sottolineato che la Santa vuole per l’Ucraina “una pace giusta”.

L’evento, che vedeva anche la partecipazione di Romano Prodi (poi incontrato da Papa Francesco in udienza il 20 gennaio) aveva come tema “Le armi della diplomazia. Dialogo tra Santa Sede e Europa davanti alla guerra”.

Va ricordato che, tra le varie iniziative, il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, ha anche lanciato l’idea di una “Conferenza Europea per la Pace”.

L’arcivescovo Gallagher ha messo in luce che la diplomazia pontificia ha come valore aggiunto la misericordia, che è in grado di spezzare le catene dell’odio e della vendetta.

Gallagher ha anche ribadito un concetto che ha più volte espresso anche in conversazioni private, ovvero che, sul conflitto in Ucraina, la diplomazia sta rincorrendo gli eventi più che prevenire i conflitti, e anzi è stata messa in luce una profonda crisi del sistema multilaterale e delle grandi organizzazioni internazionali.

Il “Ministro degli Esteri” vaticano ha sottolineato che “quello che sta cercando di fare il Papa è di mantenere l’ideale di pace, perché non possiamo rassegnarci a un conflitto eterno”. E, sulle mediazioni, l’arcivescovo Gallagher nota la disponibilità della Turchia, ma mette in luce che si devono aiutare altri attori ad entrare in comunicazione e avere contatti”. Anche perché, aggiunge, una conclusione del conflitto non è pensabile senza un accordo tra Stati Uniti e Cina.

Ha sottolineato l’arcivescovo Gallagher: "Quello che ho trovato un vero scandalo è stato quando il segretario generale dell'Onu Guterres si è recato a Kiev ed è stato bombardato. Questo è stato un grandissimo scandalo, uno dei più grandi di questa guerra: il segretario di una istituzione come l'Onu che viene bombardato da un membro permanente del Consiglio di sicurezza dell'Onu".

Infine, l’arcivescovo ha rilevato che “in questa guerra si deve riprendere anche di più, da parte di entrambe le parti, il concetto di popolo e di autodeterminazione perché sembra si sia trasformata soprattutto in una guerra di personalità". A conclusione del dibattito l'ex premier Romano Prodi ha spronato a recuperare lo strumento del "compromesso", l'unica strada a suo dire che può dare prospettive di uscita dal conflitto.

Papa Francesco in Ucraina, l’ambasciatore Yurash: “Lo speriamo”

L’ambasciatore di Ucraina presso la Santa Sede Andryi Yurash ha espresso la speranza che il Papa possa essere “un passo avanti nell’installare la pace”. Yurash, in un tweet diffuso a seguito dell’Angelus del 15 gennaio, ha detto che “il permanente supporto all’Ucraina di Papa Francesco” è “grandemente apprezzato” e che la sua “vicina visita in Ucraina” sarebbe vista come “un vero passo avanti” nello stabilire la pace.

Yurash ha anche postato l’intervista che il braccio destro del presidente Zelensky, Andriy Yermak, ha dato a SkyTg24. Yermak ha affermato che “è tempo di una visita del Papa in Ucraina per dare un segnale chiaro che la Russia debba ritirare le sue truppe”. Yermak ha avuto anche una breve conversazione telefonica con il Cardinale Parolin nel giorno del suo compleanno, che è casualmente anche il giorno del compleanno dell’ambasciatore Yurash.

Tuttavia, fino ad ora non ci sono segnali di una volontà del Papa di visitare l’Ucraina. In varie interviste, il Papa ha legato un possibile viaggio a Kyiv con un viaggio a Mosca, e sempre ha detto di volver vedere entrambi i contendenti.

All’inizio della guerra, il Papa ha subito fatto visita all’ambasciata della Federazione Russa presso la Santa Sede, in una mossa non convenzionale perché in genere è il Papa che convoca gli ambasciatori, ma non ha mai fatto visita all’ambasciata ucraina presso la Santa Sede, pur mantenendo contatti costanti e avendo avuto due conversazioni telefoniche con il presidente ucraino.

                                    FOCUS NUNZIATURE

Papa Francesco nomina il nunzio in Giordania

È l’arcivescovo Giampietro Dal Toso il nuovo nunzio apostolico in Giordania. Per la prima volta da quando la nunziatura di Amman è stata scorporata da quella di Baghdad (prima il nunzio seguiva Iraq e Giordania, e aveva sede nella capitale irachena) arriva un nunzio residente, ed è un nunzio di prima nomina.

Nato nel 1964, sacerdote dal 1989, l’arcivescovo Dal Toso non viene infatti dalla carriera diplomatica, ma da un lungo percorso di 25 anni in Curia, dove è entrato nel 1996 come officiale del Pontificio Consiglio Cor Unum, di cui è stato poi sottosegretario dal 2004 al 2010, e segretario dal 2010 al 2017, e poi per un breve periodo segretario delegato dell’allora neonato Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale. Quindi, dal 2017 al 2022 è stato segretario aggiunto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli e presidente delle Pontificie Opere Missionarie.

Dopo cinque anni di mandato, Papa Francesco lo ha dunque inviato come suo “ambasciatore” in una sede che necessita di carisma missionario, e dove troverà una ottima organizzazione e anche tante opere della Chiesa sul territorio.

Come segretario del Pontificio Consiglio Cor Unum, aveva coordinato i primi aiuti “Il Papa per l’Ucraina”, e nel 2017 era stato anche inviato ad Aleppo.

                                    FOCUS CRISTIANI PERSEGUITATI

L’Italia avrà un inviato per i cristiani perseguitati

Dopo la nomina di un inviato speciale per la Liberà Religiosa, nella persona di Andrea Benzo, l’Italia nominerà anche un inviato per i cristiani perseguitati. Lo ha sottolineato il ministro degli Esteri Antonio Tajani in una intervista la scorsa settimana.

Tajani ha detto: “Ho deciso di nominare un inviato speciale del Ministero degli Esteri per i cristiani perseguitati nel mondo, quella che un tempo veniva chiamata la ‘Chiesa del silenzio’. Per il governo è una priorità”.

L’Italia sarebbe così l’unica nazione in Europa, insieme all’Ungheria, ad avere un ufficio dedicato ai cristiani perseguitati.

Il rapporto di Open Doors

Tra i rapporti che finiscono sul tavolo dei diplomatici ad inizio anno, c’è quello sui cristiani perseguitati dell’organizzazione cristiana Open Doors, la World Watch List che monitora la situazione dei cristiani del mondo. I dati che riguardano il 2021 non sono confortanti.

Resta stabile, infatti, il numero di fedeli che soffre di gravi forme di discriminazione e abusi: sono 360 milioni, un cristiano su sette. Ma cresce il punteggio degli indicatori nei cinquanta Paesi dove i cristiani sono più a rischio. Al primo posto, ritorna la Corea del Nord, a causa della “legge contro il pensiero reazionario” che ha portato a un aumento degli arresti e delle chiusure delle chiese. Lo scorso anno, complice il ritorno dei talebani, l’Afghanistan aveva preso la maglia nera di questa speciale classifica.

Ora l’Afghanistan è solo nono, ma questo perché la maggior parte dei cristiani è fuggia, e la piccola comunità rimasta vive in clandestinità.

Sono molti gli elementi di preoccupazione. In Myanmar, le forze armate hanno raso al suolo la chiesa di Nostra Signora dell’Assunzione a Chan Thar. E poi, c’è la preoccupante situazione nell’Africa Sub-Sahariana, testimoniata anche dai recentti accadimenti: la scorsa settimana un sacerdote è stato arso vivo in Nord Kivu, nell’Est del Congo, mentre una bomba ha massacrato 14 persone in una Chiesa pentecostale in Nigeria.

Ci sono anche segni positivi: lo scorso anno sono state attaccate o chiuse poco più di duemila chiese, mentre lo scorso anno erano 5 mila. La riduzione più grande c’è stata in Cina, dove si sono contati mille casi contro i precedenti 3 mila. I rapimenti dei fedeli sono passati 3.829 a 5.259. Quasi cinquemila di questi rapimenti, ovvero la stragrande maggioranza: si concentrano in tre nazioni: Nigeria, Mozambico e Congo. Sono decine di migliaia poi i cristiani aggrediti, quasi 30mila casi.

Solo in India, dove il governo del radicale indù Narendra Modi ha compresso i diritti degli esponenti delle altre fedi, si contano 1750 arrestati senza processo.

I fedeli che si trasformano in sfollai interni e profughi sono sempre di più, e sono parte di una strategia volta a cancellare la presenza cristiana in molti Paesi.

Il rapporto conta anche oltre 2 mila stupri e 717 nozze obbligate, ma si tratta solo dei casi che si sono potuti registrare. Il fenomeno è infatti enormemente più diffuso.

                                                FOCUS EUROPA

Santa Sede e Bielorussa puntano a continuare la cooperazione attiva

Sembrano lontani i tempi in cui le relazioni tra Santa Sede e Bielorussia erano tese per via della vicinanza della Chiesa cattolica alle proteste in piazza dopo le elezioni che avevano portato di nuovo alla vittoria di Aleksandr Lukashenko. Addirittura, il governo aveva bloccato il rientro in patria dell’arcivescovo Tadeusz Kondrusiewicz di Minsk, e solo l’intervento dell’allora nunzio Gugerotti, nominato dal Papa suo inviato speciale a Minsk, permise un accordo.

In quei frangenti arrivò a Minsk l’arcivescovo Ante Jozic come nunzio apostolico, e subito cominciò un lavoro di dialogo. Il 16 gennaio, Sergei Aleinik, ministro degli Affari Esteri di Bierloussia, ha incontrato l’arcivescovo Jozic. Secondo un comunicato del ministero degli Esteri di Minsk.

Il comunicato sottolinea che Aleinik e Jozic hanno discusso temi riguardo la collaborazione, e anche opinioni concernenti la situazione nella regione, riaffermando l’impegno a continuare una cooperazione attiva in diverse sfere e un dialogo rispettoso e aperto su temi di comune interesse.

                                                FOCUS AFRICA

Situazione in Nigeria, parla il nunzio

Dopo l’uccisione di padre Isaac Achi in Nigeria, l’arcivescovo Antonio Guido Filipazzi, nunzio apostolico in Nigeria, ha delineato dai microfoni di Vatican News la situazione nel Paese.

L’arcivescovo Filipazzi ha detto che la notizia porta “grande dolore”, ma che “non è il primo sacerdote che rimane coinvolto in atti del genere”. Insieme a padre Achi, è rimasto ferito un altro sacerdote, e i due “si sono confessati reciprocamene per prepararsi alla morte”.

Ha spiegato il nunzio che “sulla dinamica degli avvenimenti non ci sono molti dubbi: si ha l’impressione che si volesse a tutti i costi eliminare questo parroco. Ora bisogna capire perché, chi ha voluto questo, e così via…”

L’arcivescovo Filipazzi ha anche fatto messo in luce che “episodi di violenza come questo sono all’ordine del giorno e coinvolgono tante persone che non sono né sacerdoti né cattolici”.

Il nunzio ha anche messo in luce come ci si trovi oggi “a poche settimane dalle importanti elezioni che chiameranno un nuovo presidente a guidare questo grande Paese, e quindi le elezioni portano sempre instabilità. Poi, il Paese essendo così grande, vari sono i fattori che portano alla violenza: pensiamo al terrorismo, pensiamo allo scontro etnico, pensiamo alla criminalità organizzata… Il tutto anche in un contesto economico che non è certamente florido. Se mettiamo insieme un po' tutti questi aspetti, si vede come la situazione è davvero seria”.

Infine, l’arcivescovo Filipazzi ha affermato che “anzitutto, i nigeriani siano consapevoli che sono i primi a dover rispondere a questa situazione, che il loro Stato deve essere uno Stato in grado di proteggere i diritti e le proprietà di tutti i cittadini, senza distinzione. Questo deve essere lo scopo di tutti: di creare uno Stato del genere, uno Stato che sia capace di svolgere tale missione. E questo è certamente compito di tutti, a cominciare da chi ha la responsabilità del governo e dell’amministrazione”.

                                                FOCUS AMERICA LATINA

Il ministro degli Esteri cubano ringrazia Papa Francesco

Bruno Rodriguez, ministro degli affari esteri di Cuba, ha ringraziato Papa Francesco per il messaggio inviato al popolo cubano in occasione dei 25 anni della visita di San Giovanni Paolo II.

“Il nostro popolo – ha detto il ministro – si sente onorato di ricevere, ancora una volta, il saluto e la manifestazione di simpatia di Papa Francesco”.

Nel suo messaggio, Papa Francesco ha invitato i cubani a dare “nuovo impulso per continuare a scrivere con speranza e determinazione il futuro della loro nazione”, e ha descritto il viaggio di San Giovanni Paolo II nel 1998 “un momento di grazia e di benedizione per tutti”.

La Santa Sede ha facilitato la riapertura delle relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Cuba, e Papa Francesco si è recato due volte nel Paese: la prima nel 2015, fermandosi prima del viaggio negli Stati Uniti in occasione dell’Incontro Mondiale delle Famiglie di Philadelphia, e poi nel 2016, quando l’aeroporto San Marti fu lo scenario del primo incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Kirill.

Raul Castro è stato anche in visita in Vaticano.

Arcivescovo di Lima su violenza nel Paese

Durante la Messa e il Te Deum celebrati per il 488esimo anniversario della Fondazione di Lima, il Cardinale Carlos Castillo Mattasoglio ha chiesto all’Esecutivo e al Congresso del Perù che terminino gli atti di corruzione, e ha chiesto l’unione di tutte le autorità e delle istituzioni pubbliche e private di unirsi a favore del bene comune, mettendo da parte gli interessi particolari.

“La corruzione – ha detto il Cardinale Castillo – è un virus sociale che infetta tutto, e i poveri e la madre terra sono quelli più pregiudicati. Ci vuole maggiore cultura di trasparenza tra le entità pubbliche, il settore privato, la società civile, senza escludere le organizzazioni ecclesiastiche. Nessuno può essere alieno a questo processo, la corruzione è evitabile ed esige l’impegno di tutti”.

Nell’omelia, il Cardinale si è rivolto poi alla presidente Dina Boluarte, a José Williams, presidente del Congresso, e al sindaco di Lima, Rafael Lopez Allaga, nonché a tutti i parlamentari. Chiedendo che abbiano il coraggio di “dare al proprio popolo la sicurezza per cui sentano che il Perù è uno spazio di speranza e opportunità per tutti e non solo per alcuni”.

Il Paese è costellato di tensioni. Il 20 gennaio, c’è stata una mobilitazione proclamata dai movimenti che chiedono le dimissioni della presidente Dina Boluarte, che ha preso il posto di Pedro Castillo dopo il fallito tentativo di golpe, e nuove elezioni.

Gli scontri hanno portato a Lima alla morte di due persone (sale a 52 il bilancio provvisorio di queste settimane), al ferimento di 22 agenti di polizia e di 16 civili, oltre all’incendio di un edificio storico, posto sotto vincolo, nella centralissima plaza San Martín.

Ad Arequipa, seconda città peruviana, nel sud del Paese, i manifestanti hanno cercato di riprendere il controllo dell’aeroporto, com’era accaduto circa un mese fa, e hanno arrecato ingenti danni alle apparecchiature.

La presidente Dina Boluarte, in un messaggio al Paese, ha confermato che non intende farsi da parte, e, pur manifestando disponibilità al dialogo, ha proclamato: “I gesti di violenza non rimarranno impuniti”.

La Conferenza episcopale peruviana, che si trova in questi giorni riunita in assemblea plenaria, non ha potuto celebrare l’annunciata Messa per il Perù, che avrebbe dovuto svolgersi nella chiesa di Las Nazarenas, che custodisce l’immagine del Cristo dei Miracoli.