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In attesa delle Settimane Sociali ecco come funziona l'economia di San Francesco

San Francesco di Assisi visto da Cimabue  |  | pd San Francesco di Assisi visto da Cimabue | | pd

Nel suo testamento san Francesco di Assisi ha scritto: “Ed io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare; e voglio fermamente che tutti gli altri frati lavorino di un lavoro quale si conviene all’onestà. Coloro che non sanno, imparino, non per la cupidigia di ricevere la ricompensa del lavoro, ma per dare l’esempio e tener lontano l’ozio”.

Partendo dallo scritto ed a poche settimane dall’inizio delle Settimane sociali a Cagliari abbiamo rivolto alcune domande sul rapporto tra povertà ed economia al prof. Oreste Bazzichi, docente di Sociologia alla Pontificia Facoltà Teologica S. Bonaventura – Seraphicum (Roma) e di Deontologia nel Master in comunicazione d’impresa alla Pontificia Università S. Tommaso (Roma); inoltre fa parte della redazione della rivista scientifica della Fondazione Giuseppe Toniolo ‘La Società’. La sua attività di studioso è rivolta prevalentemente all’analisi dei rapporti tra etica ed economia, con particolare attenzione ai teologi e canonisti della Scuola francescana.

Nell’immaginario popolare san Francesco è considerato il poverello di Assisi, scalzo vestito da un semplice saio, un fanatico della povertà, anche se lui svolse un lavoro incredibile nel sollevare tantissime persone dalla povertà. Qual’era la concezione di povertà di Francesco di Assisi?

“Una certa pubblicistica romantica dell’Ottocento e cinematografica e televisiva del Novecento ci hanno presentato un san Francesco sentimentale, sognatore, poeta, cantastorie, bucolico, ‘giullare’ in senso negativo, amante delle feste e dei divertimenti, insofferente dell’autorità, sobillatore e riformatore contro la gerarchia ecclesiastica, tanto pazzo, infine, da scegliere di vivere in povertà assoluta, lui figlio di ricco commerciate di stoffe preziose! Facciamo un po’di chiarezza.

Un tale Francesco storico, appesantito da varie leggende, nate anche all’interno dell’Ordine, non è mai esistito. L’analisi storica nei suoi confronti, purtroppo, non è riuscita al superamento del mito, tanto che oggi la questione francescana rappresenta un esempio piuttosto raro in cui la ricerca storica ha contribuito alla formazione di un vero e proprio mito contemporaneo, suffragato anche dalla copiosa agiografia creata ad hoc, subito dopo la morte del fondatore, dalle stesse testimonianze francescane per fini specifici.

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Fra i quali, non è fuori luogo citare, tra i più rilevanti, l’affermazione di fra Gerardo da Borgo S. Donnino, desunta dalle opere del’abate calabrese, Gioacchino da Fiore, individuando nella terza epoca della storia, dopo quella del Padre e del Figlio, quella dello Spirito, nella quale la Chiesa di Cristo sarebbe stata sostituita dall’Ecclesia spiritualis, costituita soltanto dagli Ordini mendicanti, francescani e domenicani.

O l’altra affermazione di un Francesco che voleva riformare la Chiesa senza gerarchia. A tale proposito, lo stesso papa Benedetto XVI, in una catechesi dell’inizio 2010, chiarì che Francesco all’inizio ‘non aveva l’intenzione di creare un nuovo ordine, ma solamente di rinnovare il popolo di Dio...ma capì che per dar forma al rinnovamento’ era necessario inserirsi ‘in modo totale, col cuore, nella comunione con la Chiesa, con il Papa e con i Vescovi’.

Non è un caso che subito dopo la conversione, con i primi seguaci, si recò nel 1209 a Roma, da papa Innocenzo III, per ottenere la sua benedizione ‘per vivere secondo il santo Vangelo’, non ponendo la povertà come scopo della sua vita, ma usare la virtù della povertà evangelica quale mezzo, e non come scopo, né fine, per rivitalizzare la Chiesa, ponendosi sotto la guida del Papa, aiutandolo a combattere la grave crisi di corruzione penetrata anche nel basso clero, senza mai mettere in discussione il Magistero dottrinale della Chiesa”.

Con il Banco dei Pegni i francescani allargarono enormemente la disponibilità al credito, favorendo lo sviluppo e il progresso civile. Può spiegarci come fecero?

“Andando ad approfondire sempre più il fenomeno socio-economico ed etico-culturale dei Monti di Pietà e dei Monti frumentari, creati e diffusi dalla predicazione francescana nel XV e XVI secolo, si evidenziano aspetti di carattere sociale che vanno al di là della mera filantropia e del ruolo economico specifico.

Con le loro attività, ora legate al credito su pegno oppure all’aspetto agrario della semina (o per calmierare i prezzi del grano a seconda dell’andamento del raccolto dell’annata), ora orientate a garantire una dote alle donne più povere, o a contribuire al mantenimento di un ospedale, orfanatrofio o osservatorio, i Monti di Pietà seppero adeguarsi ai cambiamenti socio-economici non solo in Italia, ma anche nella parte meridionale dell’Europa; e proprio a questa capacità di adeguamento e di flessibilità va ricondotta la loro lunga durata.

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Il fondamento teorico si basava su tre pilastri: la solidarietà civica, che rappresentava il concretizzarsi della caritas cristiana, resa operativa dalla ricchezza messa a disposizione da persone facoltose per guadagnarsi la salvezza dell’anima, oltre ad aiutare i ‘bisognosi’ con un piccolo prestito su pegno, concedendo loro l’alternativa all’elemosina con l’inizio di una propria attività; il passaggio dalla teoria alla prassi attraverso l’utilizzo di servizi creditizi pubblici anche ai poveri: la creazione sostenuta dai francescani per amministrare ‘il santo credito’:

l’ubicazione del Monte al centro della città come segno di importanza e pari dignità con il mercato e il municipio; la differenziazione della funzione creditizia, che, nelle città assumeva un ruolo con connotati più vicini al credito cooperativo odierno, mentre nelle piccole comunità, con prestito su pegno senza interesse, assumeva un ruolo per lo più assistenziale: senza dimenticare l’aiuto a favore della parte più povera degli agricoltori, ai quali venivano prestate derrate di cereali per la semina.

Il primo Monte fu fondato a Perugia nel 1462; seguirono quelli di Foligno, Gubbio, Orvieto, L’Aquila, Città di Castello, Terni, Ascoli Piceno, Tolentino e poi in tutta Italia, tanto che nel 1515, in occasione della bolla ‘Inter Multiplices’, favorevole alla proposta di richiesta di un ‘moderato’ tasso di interesse, se ne contavano già 135.

I Monti di Pietà ed, i meno conosciuti, Monti frumentari, quindi, si presentarono come strumenti accessibili a tutti senza distinzione di status, assolvendo funzioni prima solidaristiche e sociali e poi, in mancanza di un sistema creditizio di carattere pubblico, sempre più bancarie: e i Monti frumentari i un sistema di conduzione e coltivazione agricola cosiddetta a mezzadria”.

Quanto della mentalità e del pensiero francescano su come vincere le povertà e favorire lo sviluppo potrebbe essere praticato oggi?


“Il pensiero francescano suggerisce un modello socio-economico, a cui fa riferimento anche papa Benedetto XVI nell’enciclica ‘Deus caritas est’, dove egli propone alla società di oggi l’icona evangelica del Buon Samaritano (Lc 10, 25-37).

In questo modello l’impresa torna veramente a svolgere il suo doppio ruolo sociale: servire il bene comune, producendo beni e servizi utili e creando opportunità di fruttuose relazioni fraterne, di piena occupazione (‘la grazia del lavoro’), di collaborazione e di sviluppo delle capacità umane. Lo sviluppo della parabola è chiaro, logico, lineare ed eloquente e quindi non ha bisogno di spiegazioni.

Il modello, ripreso in più occasioni anche da papa Francesco, offre un programma immediato, di risposta a ciò che, in una determinata situazione, costituisce la necessità impellente: ‘gli affamati devono essere saziati, i nudi vestiti, i malati curati in vista della guarigione, i carcerati visitati’, …., ma poi occorre un programma che preveda ‘l’umanizzazione del mondo’, facendo ‘il bene adesso ed in prima persona, con passione e ovunque ce ne sia la possibilità, indipendentemente da strategie e programmi di partito. Il programma del cristiano –il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù– è un cuore che vede’ (n. 31b).

Sul significato teologico-sociale di ‘prossimo’ papa Benedetto XVI afferma che la parabola chiarisce due punti di grande importanza: mentre fino ad allora il concetto di prossimo era riferito ad un popolo, ad una nazione, ad una comunità, adesso questo limite viene scavalcato:

‘Il concetto di prossimo viene universalizzato e rimane tuttavia concreto. Nonostante la sua estensione a tutti gli uomini, non si riduce all’espressione di un amore generico ed astratto, in se stesso poco impegnativo, ma richiede il suo impegno pratico qui ed ora’ (n. 15).

L’episodio del Samaritano suggerisce un modello sociale per passare dalla sola giustizia sociale, la cui attuazione sarebbe già molto in qualsiasi società, alla compassione (sumpatheia, con affetto, con amore) e alla misericordia (misericors, miserere, avere pietà). Basta pensare che il Samaritano era un estraneo rispetto a quello sfortunato, anzi, addirittura un potenziale nemico”.